di Andrea Monda

A proposito degli Hobbit è il titolo del lungo prologo che precede, e in molto casi blocca, la lettura del capolavoro di J.R.R.Tolkien Il signore degli anelli.

E’ infatti molto buffa, bizzarra, quasi disturbante quella parentesi, prolissa e meticolosa, che l’autore del romanzo dedica alle sue più famose creature. Se da una parte corrisponde all’affermazione di Tolkien sulla sua “mentalità da storico” con cui aveva composto le sue saghe, dall’altra rischia di disorientare e infastidire il lettore che magari finisce per rinviare la lettura di queste 16 pagine, dedicate a informazioni riguardanti la coltivazione dell’erba pipa anziché l’ordinamento della Contea, ad un momento successivo alla lettura dell’intero, lunghissimo, romanzo, quando peraltro si troverà di fronte non 16 ma 130 pagine di Appendici contenenti anch’esse le notizie più disparate (sugli stessi hobbit, sui nani, gli uomini di Gondor e di Rohan) spesso minuziose quanto futili… apparentemente. Molti lettori procedono così, saltando del tutto tutti questi “apparati” con cui l’autore ha confezionato la sua storia. Altri invece, all’opposto, finiscono per tuffarsi dentro quell’universo fatto di mappe e cronologie e diventare dei maniaci del dettaglio, degli “eruditi tolkienani”: il lettore lascia il posto al fan. Forse entrambi i due atteggiamenti sono sbagliati. In queste divagazioni extra-vaganti prenderemo in esame il primo.

L’anti-paganesimo di Tolkien: Gli hobbit

Quel prologo dedicato agli hobbit, posto in apertura del volume (e perché proprio lì e non insieme alle Appendici?) sembra sottolineare un aspetto, spesso negletto dalla critica e dai lettori (eppure Tolkien lo dice anche nelle sue lettere) e cioè che Il signore degli anelli, rispetto a tutte le altre opere di JRRT, è decisamente hobbit-centrico. Ricordare questo aspetto non è inutile, serve, per esempio, a togliere, a sgombrare, tutta quell’aura pagana che circonda ancora una certa lettura del romanzo. Un recente saggio italiano, Paganesimo e cristianesimo in Tolkien è una chiara esemplificazione di questo misunderstanding: sia la parte scritta a favore del paganesimo, sia quella a difesa del cristianesimo trascurano di mettere nella giusta luce questo carattere di “hobbit-centrismo” dell’opera. E’ invece proprio la presenza degli Hobbit, con la loro rustica concretezza, a spazzare via, più di ogni altro elemento, ogni traccia di paganesimo. Essi sono davvero “la gente meccanica e di piccolo affare” di cui parla Manzoni; sono i protagonisti della piccola storia, quella di Bilbo e Frodo della Contea, che si intreccia (e sconvolge) la Grande Storia del mondo della Terra di Mezzo. I protagonisti del romanzo non sono Aragorn o Gandalf (il cavaliere e lo stregone), né Sauron (nonostante il titolo sembri alludere a quest’ipotesi ? e sull’ambiguità del titolo bisognerebbe tornare), ma sono tre Hobbit: Frodo, Sam e Gollum.

Del resto, se Tolkien rimarrà nella storia della letteratura, e così sarà (anche per la felicità che ha regalato a milioni di lettori ? perché “la letteratura”, diceva Borges, “è un altro dei nomi della felicità”), questo avverrà grazie alla sua piccola ma straordinaria invenzione degli Hobbit. Tutto il resto del romanzo, il viaggio (nel cielo, sulla terra e sotto terra, nell’Ade), i cavalieri con tanto di spada e destriero, gli stregoni, gli alberi e gli animali parlanti, i principi e le principesse, i regni da riconquistare? tutte queste cose già esistevano: Tolkien non fa altro che rivisitarle anche se con straordinaria maestria, dovuta al suo talento di professore di filologia, e con la sobrietà della sua lingua novecentesca. Ma gli Hobbit non c’erano, prima di Tolkien non esistevano. Come Faust, come Achab e Moby Dick, come Jeckyll e Hyde, anche lo Hobbit è entrato nel pantheon dei miti letterari, che poi solo letterari non sono mai perché non c’è cesura tra vita e letteratura (se la letteratura è grande). Anche per questo Tolkien insiste tanto per descriverci, per presentarci le sue creature sin nel minuscolo dettaglio, mostrandoli in quel prologo-tassonomico. Gli Hobbit sono reali, sono concreti: noi lettori li possiamo conoscere, anzi, li conosciamo? e li conosciamo bene visto noi siamo gli Hobbit. Non a caso Samwise, detto Sam, chiama il suo pony Bill e non a caso la temibile zia di Frodo Lobelia Sackwille-Baggins usa passeggiare con l’ombrello? sono (anche) questi piccoli “anacronismi” ad indicarci che la Terra di Mezzo non è un vagheggiato Medio Evo, né tantomeno Utopia, ma è la nostra amata terra, oggi.

L’anti-utopia tolkieniana, sempre gli hobbit

Il signore degli anelli è tutto tranne un romanzo nostalgico o utopistico. E’ necessario affermarlo proprio perché è stato più volte detto e la “vulgata” è rimasta e ancora circola, come quella che parla di Tolkien come scrittore conservatore e del suo romanzo come un libro d’evasione.

Procedendo con estrema sintesi si potrebbe dire che a negare recisamente ogni “favore” accordato da Tolkien alla nostalgia e all’utopia stanno, come macigni, la fine del racconto e la descrizione della Contea e del regno degli Elfi Lothlorien.

Partiamo da quest’ultimo. Loth-Lorien, come è indicato nel nome stesso (collegato all’idea del fiore del Loto, del fiume Letè), è il regno dei sogni, della smemoratezza, in cui il tempo si ferma e non penetra. In questo reame gli elfi regnano incontrastati, al sicuro ma non felici. La loro esistenza è segnata da un’ineliminabile malinconia, un continuo ricordare (fatto di cantare e in-cantare) un passato mitico quanto inaccessibile. I protagonisti del romanzo, la Compagnia dell’Anello, si fermerà per “qualche” (incalcolabile) tempo in questa splendida contrada, considerata “perigliosa” da molti dei suoi componenti, come Boromir e Gimli e i sospettosi hobbit. Nonostante si legga facilmente l’amore che Tolkien nutre per gli Elfi di Lothlorien, si scorge in filigrana che quello stesso sospetto agita anche la mente dello scrittore. Qual è il peccato degli Elfi che rende periglioso Lothlorien e che Tolkien intende sottolineare senza perdonare? Lo spiega lo scrittore stesso in almeno due lettere, una del 1954 in cui afferma che

Alcuni recensori hanno definito il libro semplicemente come una lotta fra Bene e Male, dove tutti i buoni sono buoni, e i cattivi sono cattivi. Scusabile, forse (anche se si sono lasciati sfuggire Boromir) in persone che hanno fretta, e con un unico frammento a disposizione da leggere e, naturalmente, senza le storie sugli elfi scritte in precedenza ma non pubblicate. Ma gli Elfi non sono completamente buoni o nel giusto. Non tanto perché hanno flirtato con Sauron; quanto perché con o senza il suo aiuto erano degli “imbalsamatori”. Volevano la botte piena e la moglie ubriaca: vivere nella Terra-di-Mezzo, nella storia e fra i mortali, perché ormai ci si erano affezionati (e forse perché lì avevano tutti i vantaggi di essere una casta superiore), e così tentare di fermare i cambiamenti e la storia, fermare la sua crescita, considerarla un luogo di delizie, anche se in gran parte deserta, dove loro potevano essere gli “artisti” – e contemporaneamente essere pieni di tristezza e di rimpianto nostalgico”

(vedi J.R.R.Tolkien, La realtà in trasparenza, op.cit., pag.223 e ss.) ed una del 10 aprile 1958, in cui, sempre parlando degli Elfi, aggiunge che

La loro tentazione è diversa: una pigra malinconia, appesantita dalla memoria, che li conduce a tentare di fermare il tempo.

(ibidem, pag. 313 e ss.).

La caduta degli Elfi nella tentazione della nostalgia è mortale, essi infatti sono destinati all’estinzione e all’oblio. Lo intuiscono i più saggi tra loro, come Elrond e Galadriel: comunque vada a finire la Guerra dell’Anello i giorni degli Elfi sono contati. Il finale del romanzo confermerà questa “condanna” ad ogni atteggiamento di fuga/ritiro dal mondo.

Ma non tutti gli hobbit.. Anzi, molto pochi

Il peccato degli Elfi è simile a quello dei meno aristocratici e più rustici Hobbit abitanti della lieta Contea, The Shire. Anche questa regione della Terra di Mezzo ci viene presentata come un “paradiso terrestre” dove lo smog e la guerra sembrano non esistere (ma arriveranno nel finale della storia), un Eden idillico e bucolico dove la maggiore attività richiesta agli uomini è la preparazione di sontuose feste di compleanno, la coltura e il consumo del tabacco nonché la faticosa abitudine del pettegolezzo, comunque bonario e mai violento. Però, c’è un però. Nonostante tutto quel prologo e quella partenza nel primo capitolo così lenta e quasi farraginosa, notiamo subito un particolare: Tolkien non ci parla in realtà della Contea e degli Hobbit ma solo di quegli Hobbit (pochissimi) che trasgrediscono le ferree norme e le vetuste consuetudini della Contea. A Tolkien non interessano gli Hobbit se non per contraddirli, per mostrare il loro “negativo”. Gli Hobbit di cui si parla sono gli unici Hobbit che lasciano la Contea (la più grande delle trasgressioni). Sempre nelle sue lettere Tolkien mette in guardia dalla “grettezza” di cui gli Hobbit sono capaci e nello stesso romanzo c’è la battuta-chiave dell’Hobbit Merry: “Il terreno nella Contea è profondo. Tuttavia ci sono cose ancora più profonde e più alte; e se non fosse per loro, un giardiniere non potrebbe curare il suo giardino in quella che lui chiama pace”. La pace della Contea è una pace gretta e fittizia, guadagnata non dal valore dei suoi abitanti ma dall’oscuro lavoro di personaggi come Grampasso-Aragorn e dal temuto e impopolare (almeno a Rohan) stregone Gandalf il Grigio. E’ grigio è il colore di tutto il romanzo: non esistono paradisi splendenti e immacolati e il colore bianco di Saruman è segno della più grande della tentazione, quello della virtù, del potere, dell’ordine. L’apparente tranquillità della Contea è solo lo sfondo che serve a Tolkien per muovere i suoi personaggi, può essere anche considerato come un patrimonio, ma che non può, non deve essere conservato. Come i talenti della parabola, la pace della Contea e la forza dei suoi abitanti è qualcosa che deve essere messa in gioco, deve essere spesa tutta altrimenti la fine travolgerà terra e abitanti.

Il romanzo si apre con la battuta di Hamfast, il padre di Sam che mette in guardia il figlio da non lasciarsi incantare dai racconti del signor Bilbo:

“Elfi e Draghi!” Gli dico. Cavoli e patate soli fatti per gente come noi. Non t’impicciare degli affari dei tuoi superiori, o ti capiteranno guai a non finire, gli dico. E lo dico anche a voi.

Ma Sam, che come è scritto poco dopo,

?conosceva bene il paese nel giro di 30 miglia da Hobbiville, ma quello era il limite delle sue conoscenze geografiche

si impiccerà e finirà per diventare quel “terribile guerriero elfico” che ferirà a morte Shelob la Grande (oltre a permettere con la sua tenacia e amicizia fedele a oltranza – insieme a quell’altro Hobbit eccezionale, addirittura un assassino, Gollum – l’happy end della storia). Tolkien vuole bene ad Hamfast, ma gli preferisce Sam. Non a caso Sam, come Frodo e gli altri Hobbit che con lui escono dalla Contea, ne tornerà trasformato e, di fatto, troppo grande per rimanerci.

Bando alla nostalgia!

E siamo arrivati alla fine del racconto (che non è una soltanto). Da una parte si potrebbe dire che il cerchio si chiude, con la battuta finale del racconto: “Sono tornato” che Sam dice alla moglie Rosie. Ma questo è un riferimento in qualche modo autobiografico dell’autore: nella prima stesura del finale che poi Tolkien modificò si vedeva Sam che tornava a casa e leggeva “Il Libro Rosso dei Confini Occidentali” (da cui Tolkien finge di aver estratto Lo Hobbit e Il Signore degli Anelli) ai suoi figli, proprio come lo scrittore che trovava quasi ogni sera nella moglie e nei quattro figli il suo primo pubblico. La Terra di Mezzo è la nostra terra e ad essa bisogna tornare, anzi rimanere ben aggrappati, magari proprio con i piedoni nudi e pelosi degli Hobbit, gente davvero con “i piedi per terra”! E se le due terre coincidono allora non c’è alcun vero e proprio “ritorno”: il cerchio non si chiude perché, come dice un antico detto africano: “Nel tempo in cui Dio creò tutte le cose, il sole creò. Il sole nasce, muore e ritorna. Le stelle creò: le stelle nascono, muoiono e ritornano. L’uomo creò. L’uomo nasce, muore e non ritorna più.” La Terra di Mezzo non conosce una scansione del tempo circolare. Il suo autore è, di nuovo, cristiano, non pagano. Non c’è nessun ritorno all’identico: con la fine della Guerra dell’Anello la terza era si chiude e lascia il campo alla quarta era, nuova quanto incerta. A questa quarta era gli eroi della terza non parteciperanno, pur avendo contribuito a prepararla. Non ci sono “uomini per tutte le stagioni” come lascia capire la battuta finale di Gandalf:

Altri mali potranno sopraggiungere, perché Sauron stesso non è che un servo o un emissario. Ma non tocca a noi dominare tutte le maree del mondo; il nostro compito è di fare il possibile per la salvezza degli anni nei quali viviamo, sradicando il male dai campi che conosciamo, al fine di lasciare a coloro che verranno dopo terra sana e pulita da coltivare. Ma il tempo che avranno non dipenderà da noi.

Come è infatti scritto nelle Appendici, i membri della Compagnia dell’Anello, a partire da Frodo, prenderanno la nave per il loro viaggio a Ovest, al di fuori delle rotte del mondo. E anche chi, come Aragorn, rimane nella Terra di Mezzo, per governarla, al momento decisivo, della morte, si accomiaterà dall’amata Arwen con questa riflessione che spazza via ogni tentazione nostalgica:

In tristezza dobbiamo lasciarci, ma non nella disperazione. Guarda! Non siamo vincolati per sempre a ciò che si trova entro i confini del mondo, e al di là di essi vi è più dei ricordi. Addio!.

L’idolatria del passato è letale come quella del futuro. Nostalgia è un altro nome, forse ancora più insidioso, dello stesso peccato dell’utopia. A questi opposti ma uguali rischi, il cattolico Tolkien risponde con la sagacia allegria dei “carnalissimi” Hobbit, sono loro a salvare la situazione perché hanno la capacità di coltivare tenacemente il proprio piccolo campo lasciandolo sano e pulito per il futuro ma anche sapendolo mettere in gioco, rischiando in prima persona e sapendo infine anche riconoscere, con umiltà, che Il terreno nella Contea è profondo. Tuttavia ci sono cose ancora più profonde e più alte; e se non fosse per loro, un giardiniere non potrebbe curare il suo giardino in quella che lui chiama pace.