di Fabio Bocci

Ci sono persone rotonde, mia cara signora, ci sono bambini a forma, diciamo, di triangolo, perché no, e ci sono… ci sono bambini a zigzag.
(D. Grossman)

 
1. Premessa

Da alcuni anni conservo un manifesto dell’EUCREA, un ente che promuove lo sviluppo della creatività nelle persone disabili mediante l’utilizzo delle tecnologie. Vi sono raffigurati un mouse e, sullo sfondo, il disegno di un variopinto volto. Inoltre, nella parte bassa della locandina si legge:

Creativity by disabled person is always a field in which there is a lot to discover. We aim at developing new styles, opening new views and thus at overcoming borders together.

Scopo del mio intervento è quello di ragionare su come la riflessione intorno ai temi della creatività possa aiutare i disabili a valicare i limiti che ancora ostacolano la piena espressione delle proprie potenzialità nella costruzione dei personali progetti di vita. Intendo procedere per mezzo di quadri argomentativi che costituiscono le basi per un approfondimento futuro e gli sfondi per un confronto aperto a quanti sono sensibili a questi temi.

2. Sotto il limite/oltre il limite: comunque limitati

Nel corso del tempo alle persone con disabilità cognitive, fisiche e/o sensoriali non è stata concessa pari dignità psicologica e sociale rispetto ai cosiddetti normodotati. Solo di recente si è prodotto uno sforzo integrativo per superare ogni forma di emarginazione di coloro che – non presentando, in apparenza, talune caratteristiche ritenute idonee da una diversificata ma longeva idea di produttività sociale – sono stati esclusi dai processi di sviluppo delle comunità di appartenenza ed estraniati da tutte le opportunità di compartecipazione alla vita scientifica e culturale del loro tempo.
Vi sono delle eccezioni: il cieco veggente dell’antichità, il nano giullare di corte, il deforme con “certe doti” esibito alla fiera, l’imbecille da salotto. Ma si tratta di eccezioni che confermano la regola: il diverso è alius e non alter [1]. è fenomeno da mostrare e/o da vedere ma non persona da conoscere, da ascoltare e da comprendere. In questa prospettiva il disabile, il diverso, lo stranoè stato considerato interessante poiché mancante o eccedente, raramente per la sua diversabilità.
Non sorprende, quindi, che non esista molta letteratura scientifica sulla creatività dei disabili. Esistono però, come vedremo più avanti, testimonianze di persone con disabilità che hanno raccontato la propria vita, mostrando come l’espressione del potenziale creativo costituisca un potente vettore per affermare il personale desiderio di esistere.

Vi sono poi due ulteriori eccezioni che fanno caso a sé nel loro rapportarsi alla creatività: l’idiot savant e il folle.
L’attenzione per i soggetti definiti idiot savant o genî subnormali è dettata dall’eccezionale talento che essi manifestano in un determinato ambito artistico o scientifico, nonostante i loro deficit cognitivi. Come afferma Treffert, la creatività di questi individui resta un enigma per la scienza, benché si sia cercato di attribuirla a diverse cause come: la perseveranza dell’immagine eidetica (capacità dell’immagine di mantenersi fedele alle qualità degli oggetti percepiti anche per breve tempo); l’isolamento sensoriale o sociale; il predominio dell’emisfero cerebrale destro.
Anche follia e creatività formano un sodalizio duraturo nell’immaginario collettivo, sostenuto dall’idea che il disturbo mentale sia una componente della creatività o che ne costituisca una conseguenza non rara. Alonzo-Fernàndez individua alcuni fattori di rischio favorenti l’insorgere di disturbi mentali negli individui creativi: la lotta che costoro attuano contro le norme; gli sforzi compiuti per realizzare le proprie idee originali a farle accettare socialmente. Dunque, si tratta di individui talmente oltre la normalità da rimanere folgorati dalla loro stessa personalità.

Questa riflessione conduce ad una prima considerazione: alcune persone, sia che vengano reputate sotto il limite della normalità sia che si pongano o siano poste al di fuori di essa (anche per l’insorgere di un disturbo, per l’uso di alcool e droghe, per la frustrazione e la rabbia che spesso accompagnano l’atto creativo), rischiano di sentirsi e/o di divenire limitate. Ecco, allora, scaturire una seconda considerazione: la stessa sorte di limitazione è spesso toccata anche ad altri individui che per le loro caratteristiche si sono trovati collocati al di là della norma: i cosiddetti gifted o plusdotati. Nel film di J. Foster Il mio piccolo genio assistiamo a quali sofferenze, soprattutto nell’area socio-affettiva, può andare incontro un giovane con una dotazione intellettiva eccezionale. Per l’atteggiamento negativo verso certi compiti scolastici e per le difficoltà relazionali incontrate, spesso tali persone sono state, sommariamente, valutate come instabili o, addirittura, deficitarie cognitivamente. A livello internazionale si è dibattuto sulle strategie per individuare e valorizzare precocemente i gifted, con posizioni oscillanti tra la separazione in scuole speciali e l’inserimento in classi comuni. L’Italia ha contribuito a tali studi grazie allo IARD (Identificazione Assistenza Ragazzi Dotati) e ad alcune ricerche condotte da Andreani e da Calvi. La questione si è spesso intrecciata con il dibattito sull’integrazione degli allievi disabili, con accenti critici verso possibili forme di privilegio meritocratico (borse di studio, ecc…) nei confronti dei plusdotati a discapito dei soggetti svantaggiati. Al di là delle dispute ideologiche, in realtà gli studenti con disabilità e quelli con superdotazione intellettiva costituiscono ancora due categorie a rischio, poiché, come suggerisce Andreani, anche i più dotati possono divenire degli emarginati se non trovano risposte educative adeguate. Il cerchio, dunque, si chiude.

2. Oltre il quoziente intellettivo

Uno dei meriti da attribuire ai pionieri degli studi sulla creatività riguarda il fatto che essi hanno messo in dubbio l’importanza conferita al Q.I. (e ai test utilizzati per rilevarlo) quale indicatore unico, attendibile e predittivo, per misurare l’intelligenza nella sua globalità. Come sottolinea Beaudot, gli strumenti per rilevare il Q.I. prevedono una sola risposta corretta e presentano un’alta correlazione con il successo scolastico. In proposito De Landsheere suggerisce la seguente riflessione: se gli allievi che ottengono ottimi risultati nelle prove scolastiche che richiedono maggiori capacità di ripetizione, piuttosto che di elaborazione personale, sono il parametro di riferimento nella costruzione dei test, ci si chiude in un perpetuo immobilismo. Ebbene, proprio grazie a Guilford, a Getzels e Jackson, a Cropley, a Torrance si è realizzata una apertura verso nuove modalità di intendere l’intelligenza e si è operata la messa a punto di prove che non richiedono più la soluzione ma possibili soluzioni.
Sebbene Gardner nutra dei dubbi su queste procedure di rilevazione, tali studi hanno consentito a molti ricercatori di elaborare i più attuali paradigmi dell’intelligenza e della creatività: il modello triarchicodi Sternberg e quello delle intelligenze multiple dello stesso Gardner; lo schema a margherita di Urban; l’organizzazione del pensiero produttivo di Treffinger; il costrutto di intelligenza emotiva di Salovey e Mayer, poi ripreso da Goleman.

Questi nuovi punti di vista sulla struttura e sulla forma della mente hanno consentito una riconfigurazione del nostro modo di pensare il pensiero. Ne rappresenta un esempio significativo l’ormai accertata ipotesi che esistono diversi stili di pensiero, ossia che ciascuno di noi accede strategicamente alle informazioni – e ne compie delle elaborazioni – mettendo in atto modalità cognitive e metacognitive diversificate.
La consapevolezza che l’intelligenza non sia un monolite ma un caleidoscopio con sfaccettature prismatiche, ha contribuito a riconsiderare, con uno sguardo diverso, tutti coloro che sono stati esclusi dall’olimpo dell’intelligenza. Certo, qualche divinità è caduta dall’altare. Ma abbiamo anche guadagnato inesauribili sorgenti di quell’energia che chiamiamo èlan vital.

3. Oltre il pensiero forte

De Bono sostiene che per riconfigurare le modalità di pensiero tipicamente occidentali occorra superare la logica della roccia e accostarsi alla logica dell’acqua. Anche Goleman, Ray e Kaufman rilevano come “da noi” la creatività sia spesso associata all’invenzione o al problem solving, mentre nelle culture asiatiche si ritiene che provenga da una fonte più profonda che non nel pensiero innovativo. Ad esempio nella filosofia zen il pensiero è considerato solo uno dei sensi – quindi è limitato – tanto che un obiettivo del buddismo è quello di spingersi oltre i sensi e il pensiero (non a caso una delle immagini usate per riferirsi alla creatività è l’acqua, poiché si adatta a tutte le circostanze).

La critica alla prospettiva produttivistica della creatività ha trovato accoglienza in molti ambiti socio-culturali occidentali. Basti pensare alla generazione beatnik e a quella hippy; agli studi sulle “porte della percezione” con la diffusione delle droghe lisergiche (LSD) e degli allucinogeni naturali (il peyotle); al fascino esercitato da maestri Sufi, santoni e sciamani; alla contestazione studentesca del Sessantotto (l’immaginazione al potere) e del Settantasette; ai movimenti no-global, ai centri sociali, alla rete informatica e agli hackers. In tutti questi casi si assiste ad una ricerca/richiesta di luoghi/possibilità (reali e virtuali) dove esercitare le proprie libertà d’espressione, al di là delle leggi produttive.
Tali istanze hanno trovato in Leary un potente amplificatore, poiché egli ha contrapposto per decenni alla cultura dominante (che si baserebbe sulla paura, sul conformismo, sull’ordine e sul controllo) la controcultura (fondata invece sull’ottimismo, sulla curiosità, sull’apertura mentale e sul pluralismo).

Ma è ad altre due voci autorevoli che affido la conclusione: Mencarelli e Laeng. Il primo ha incessantemente suggerito di considerare la creatività come: un diritto alla attuazione del potenziale umano (ricco di motivazioni, affettività, pensieri, linguaggi…); una profonda esigenza sociale (ossia la condizione necessaria perché la società si sviluppi evitando emarginazioni, alienazioni e dispersioni di potenziale umano); l’espressione di un’ansia metafisica (delle persone, delle società e delle culture contemporanee, coinvolte in una crisi endemica dei valori fondamentali e, dunque, sollecitate a riproporsi il problema del destino umano). Laeng ci ha rammentato che la ricerca della creatività e della libertà si apre mediante il rispetto dell’altro e si realizza nell’atto del riconoscimento reciproco, al di là delle connotazioni fisiche, psichiche, etniche e religiose.

4. Oltre il mito della personalità

Ne La ballata dell’arte, Luigi Tenco affronta il rapporto tra creatività, personalità e società:

C’è chi dice che l’arte non ha rapporti con la società
per cui l’artista vero non si occupa mai di problemi sociali
lui si sente isolato
chiuso in problemi intimi
problemi che coinvolgono
la personalità. C’è chi dice che l’arte
non ha rapporti con l’uomo comune
per cui l’artista vero
non può usare un linguaggio capito da tutti
anzi meno comune sarà il linguaggio usato
tanto più verrà a galla
la personalità. Ma c’è invece chi pensa
che l’arte ha un suo rapporto con la società
visto che il nostro artista
somiglia all’uomo tipico del nostro tempo
soffre anche lui di un male
purtroppo assai diffuso
che ogni volta ritorna
portando un nome nuovo
ieri era il superuomo
adesso è l’introverso
comunque sempre il mito
della personalità.

Il cantautore illustra alcune opinioni di senso comune che alimentano l’immaginario collettivo in merito alla personalità creativa, come l’isolamento nella torre elitaria della propria coscienza o l’incomprensibilità di alcune forme espressive che sono destinate a pochi; infine, entrando nel merito dei tratti di personalità, Tenco mette in rapporto la figura dell’artista con una propensione superomico/estroversa ad altre con disposizione più depressivo/introversa.
Ho detto che si tratta di immaginario collettivo; eppure molte ricerche sul rapporto tra personalità e creatività hanno indagato questi aspetti. Basti pensare agli studi di Witkin sui campo dipendenti/indipendenti e alle indagini longitudinali dell’Institute of Personality Assessment And Research di Berkeley – compiute su architetti, scrittori, matematici e ingegneri – che hanno confermato le caratteristiche attese (es: gli architetti sono estroversi, autonomi, decisi, e così via).

Tuttavia, come rileva Rubini, se noi studiamo la personalità creativa a partire dai tratti presenti nelle persone che riteniamo essere creative – per convenzione o per il valore attribuito alle loro opere – non rischiamo di entrare in un circolo vizioso? In effetti, mi chiedo: e gli altri? E le persone con disabilità? Ad esempio, uno scrittore disabile ha tratti di personalità diversi dagli altri scrittori o dagli altri disabili o dai normodotati che non sono né l’uno né l’altro? Ce li dobbiamo attendere? E se la risposta è affermativa, per quali ragioni: perché è scrittore o in quanto disabile?
Mi viene in mente che, in attesa di studi mirati su questi aspetti, si potrebbe chiedere un parere a Claudio Imprudente. Io lo conosco solo attraverso i suoi scritti, ma la mia ipotesi è che potrebbe suggerirci di andare oltre il mito della personalità, di guardare alla persona, a quella specifica persona alla quale ci si sta rivolgendo, superando di slancio le categorie denotative. Cercherò di verificare.

5. Oltre il talento e il prodotto

Il dibattito sulla creatività ha come sfondo due antinomie che ne caratterizzano i temi. La prima riguarda il quesito se la creatività sia da intendersi come espressione di natura (talento) o come fatto di cultura (educazione). La seconda concerne la domanda se la creatività sia da considerarsi tale in funzione del processo creativo o in funzione del prodotto derivante dal processo. Tenendo presenti questi sfondi mi soffermo ora sui concetti di talento e di prodotto.

In accordo con la teoria delle intelligenze multiple vi è oggi la tendenza a considerare la creatività non come la manifestazione di una capacità globale, bensì come l’espressione di un particolare talento in un determinato campo. In proposito Amabile sostiene che alla base della creatività vi siano tre ingredienti: essere esperti in una certa area; pensare in modo creativo (diversamente dagli altri) in tale campo; avere la passione o la motivazione intrinseca per ciò che si fa. Anche Csikszentmihalyi individua tre elementi per definire la creatività: il talento individuale; il campo o la disciplina in cui la persona agisce; l’ambiente circostante, che giudica la qualità degli individui e dei prodotti. Secondo l’autore la creatività può essere considerata come una funzione delle interazioni instaurabili tra questi tre nodi concettuali. Infine, Florida propone il modello delle “tre T”: Tecnologia, Talento, Tolleranza, come base per lo sviluppo economico di una nazione.
Proviamo a riflettere su queste considerazioni.

L’idea che la creatività non sia un fluido che s’infiltra in ogni direzione – per utilizzare le parole di Gardner – riservato a pochi eletti capaci di fare tutto in qualsiasi ambito, apre la strada a una prospettiva meno superominica e più umana della persona creativa.
Tuttavia il costante ricorso al concetto di talento, espresso dal creativo in un certo campo mediante la produzione di determinate opere riconosciute come tali dall’ambiente circostante, costringe alcuni autori ad un distinguo: esisterebbe una creatività in chiave minore ed un’altra in chiave maggiore. La creatività con la c minuscola è legata alla quotidianità (l’impiegato che organizza un nuovo sistema per ordinare i documenti, l’alunno che trova una soluzione inaspettata ad un problema). Si tratta di azioni compiute da persone che hanno raggiunto un certo grado di expertise (mediante apprendimento) e lo applicano in attività comuni senza per questo passare alla Storia (con la S maiuscola). Diversamente, la creatività in chiave maggiore è descritta negli studi sulle intelligenze creative (Einstein, Picasso, Piaget, Freud). Secondo Gardner, a differenza delle persone comuni, queste personalità creative non si sono limitate ad essere brave o a fare qualcosa di nuovo ma hanno cambiato per sempre il proprio campo d’azione.

Il talento in potenza e il prodotto in atto sono dunque i poli di quest’idea di creatività.
Restano, però, delle questioni aperte. Parlando di due tipi di creatività – enfatizzando le variabili del talento, del campo, del riconoscimento sociale dell’individuo e del prodotto – non si rischia di far rientrare dalla finestra ciò che si è tentato di far uscire dalla porta? Fuor di metafora: i modelli di creatività desunti dallo studio di persone ritenute creative non apportano nuova energia all’idea che la vera creatività appartenga a pochi superuomini? [2]

D’altro canto per studiare la creatività è legittimo rivolgere l’attenzione alle personalità creative. Ma se pensiamo a coloro che ritengono, magari a torto, di non avere alcun talento o alle persone con disabilità, agli sforzi che esse compiono per raggiungere risultati che sono per loro originali, benché non lo siano per l’umanità, è lecito chiederci come possiamo, da un punto di vista pedagogico, aiutare tutti a valorizzare la propria creatività senza doversi confrontare necessariamente con la spada di Damocle del talento e del prodotto che ne confermerebbe, o meno, il possesso. Ed è forse su tali aspetti che occorrerebbe porre maggiore interesse scientifico.
Per quel che mi riguarda, oltre a condurre una serie di indagini in corso sul rapporto creatività e disabilità, suggerisco di universalizzare il modello di Csikszentmihalyi operando, sul piano semantico, alcune sostituzioni:

  • utilizzando il concetto di persona in vece di “talento”. Il termine persona prende realmente in considerazione tutti gli esseri umani, apre con fiducia alla creatività di ognuno poiché ciascuno di noi è “portatore sano” di atti creativi;
  • adoperando il termine attività (mentale o concreta, espressa o inespressa) al posto di “campo” o “disciplina”, poiché l’atto creativo non è agito solo in funzione di un compito formale;
  • preferendo il concetto di condizioni alla nozione più specifica di “ambiente che giudica”, la quale rischia di ricondurci dentro la parzialità del prodotto. Il termine condizioni è più ampio e significativo, in quanto può essere riferito: I) all’ambiente fisico (il luogo), al contesto (il momento, la situazione), all’ambiente relazionale (la presenza di un clima favorevole o l’atteggiamento delle persone presenti); II) alle condizioni interne alla persona (le competenze acquisite, le motivazioni, il senso di autoefficacia, lo stile attributivo).

Essenzializzando il discorso, la creatività non è soltanto una variabile:

  • assegnata, che attiene solo alle caratteristiche dell’individuo (il talento);
  • indipendente, in quanto non sono solo l’ambiente o il compito a sviluppare e a implementare la creatività individuale, così come a determinare la qualità e la quantità della produzione creativa degli individui;
  • dipendente, poiché la creatività non è solo il derivato dell’esistenza di persone, di compiti o di ambienti creativi.

Al tempo stesso penso che resti valida l’impostazione di fondo operata da Csikszentmihalyi, il quale suggerisce di correlare tutte le variabili coinvolte che sono rappresentate dall’insieme delle illimitate possibili combinazioni tra i tre nodi concettuali che abbiamo in precedenza analizzato.
In conclusione, è dunque possibile rivedere l’idea di creatività andando oltre il talento, oltre il processo, oltre il prodotto e ripensarla come la funzione di un insieme di procedure e di strategie autogeneranti che si attivano mediante le infinite interazioni che la persona instaura con se stessa, con le attività che intraprende, con l’ambiente fisico e relazionale in cui è immersa, con le condizioni in cui e per cui si trova ad agire. Se caliamo questa riflessione in ambito pedagogico, la creatività si configura come il luogo privilegiato d’incontro del reale e del virtuale, dell’attuato e dell’attuabile; il luogo in cui docenti e i discenti, enfatizzando tutte le procedure e le strategie d’insegnamento-apprendimento accessibili, realizzano e condividono tutti i probabili, i possibili e, perché no, i futuribili dell’educativo.

6. Educatori davvero speciali

Beaudot sostiene che la creatività di un individuo è sollecitata al massimo quando gli eventi del mondo esterno premono in questo senso. Ebbene, credo che in qualità di pedagogisti speciali si possa condividere tale asserzione. Il nostro pensiero corre naturalmente a coloro i quali, con il loro impegno scientifico e umano, hanno aperto nuove strade per l’intervento educativo, rieducativo e riabilitativo indirizzato alle persone con disabilità fisiche, psichiche, sensoriali. Itard, Séguin, de l’Epée, Montessori, Montesano, Romagnoli, De Sanctis, Bollea. Ma anche Bernardini, Lodi, Guerra Lisi. Sensibilità, apertura all’atro, passione, dedizione; ore ed ore passate ad osservare, a descrivere, a riflettere, ideando strumenti, procedure, strategie; sorretti dalla convinzione che non vi è educazione (e reale integrazione) se non si lascia spazio all’originalità di ciascuno nel porsi in relazione all’apprendimento. Un patrimonio creativo enorme, suggestivo: da esplorare ed analizzare incessantemente. Un costante richiamo all’impegno di tutti i pedagogisti poiché, come ha indicato Canevaro riflettendo su Séguin, una buona pedagogia speciale è parte di una buona pedagogia generale e i problemi posti dall’educazione delle persone con disabilità mettono alla prova e verificano la validità o meno dell’educazione in generale.

7. Disabilità e desiderio di esistere. Esperienze creative e formazione

Claudio Imprudente (Una vita imprudente), Elisabeth Auerbacher (Babette, handicappata cattiva), Christy Brown(Il mio piede sinistro), Birger Sellin (Prigioniero di me stesso), Gunilla Gerland (Una persona vera). Sono solo alcuni nomi di persone disabili che mediante la narrazione autobiografica hanno testimoniato creativamente il proprio desiderio di esistere. Come suggerisce Giusti, il raccontare/si rappresenta un progetto pedagogico auto-educativo ed educativo insieme, un percorso generativo di senso, in cui l’ atto dello scrivere, da una parte, e quello di leggere, dall’altra, spingono verso un’esperienza intersoggettiva.
In base a quanto detto – considerando in particolare gli studi di Gardner e il modello di Csikszentmihalyi da me modificato – con un gruppo di studenti del Corso di Laurea in Scienze della Formazione Primaria abbiamo esaminato le testimonianze di Brown, di Sellin e di Gerland, indagando i rapporti tra:

 

  •   l’infanzia e l’età adulta del protagonista (sguardo evolutivo);
  • il protagonista e gli altri;
  • il protagonista e l’attività scrittoria.

Inoltre, abbiamo rilevato altri temi relativamente a:

  • la persona, descrivendo cosa pensa di sé il protagonista;
  • l’attività intrapresa, evidenziando cosa dice l’autore sui propri atti creativi e quale controllo vi esercita;
  • le condizioni, individuando le componenti socio-relazionali dell’ambiente circostante, le situazioni vissute dal protagonista e le proprie motivazioni.

Da questa esperienza formativa sono emerse alcune indicazioni: l’espressione della creatività genera creatività, al di là del valore estrinseco del prodotto creativo ma nel rispetto intrinseco della persona che ne è coinvolta e che ci coinvolge; la creatività è un’interazione e si assume per contagio (come afferma Mazzotta); l’entusiasmo euristico manifestato dagli studenti durante la lettura delle narrazioni rappresenta per tutti noi il miglior viatico per proseguire con passione lungo il cammino verso l’alterità, compiuto per riscoprire l’originario e l’originale che esiste in ogni persona e che ne caratterizza, sinergicamente, l’essenza e l’esistenza.

Nota 1 – Questo distinguo va attribuito allo psichiatra Alberto Gaston.

Nota 2 – Un esempio ci è dato dalla seguente suddivisione di classi sociali operata da Florida: i supercreativi (scienziati, artisti, architetti); i creativi di professione (manager, avvocati, medici); i tecnici; la classe operaia; la classe dei servizi.

Nota bibliografica

F. Alonzo-Fernàndez, Il talento creativo. Tratti e caratteristiche del genio, Dedalo, Bari 2001;
O. Andreani Dentici, Intelligenza e Creatività, Carocci, Roma 2001;
A. Beaudot, Il problema della creatività nella scuola, SEI, Torino 1983;
F. Bocci, La Creatività, cinquant’anni dopo Guilford, in Scuola e città, 1999, 11;
A. Canevaro, J. Gaudreau, L’educazione degli handicappati. Dai primi tentativi alla pedagogia moderna, Carocci, Roma 2002;
G. De Landsheere, Per una pedagogia della divergenza, in Scuola e Città, 1967, 3;
R. Florida, L’ascesa della nuova classe creativa, Mondadori, Milano 2003;
H. Gardner, Intelligenze creative, Feltrinelli, Milano 1994;
M. Giusti, Il desiderio di esistere. Pedagogia della narrazione e disabilità, La Nuova Italia, Firenze 1999;
D. Goleman, M. Ray, P. Kaufman, Lo spirito creativo, Rizzoli, Milano 1999;
M. Laeng, Educazione alla libertà, Lisciani e Giunti, Teramo 1980;
T. Leary, Caos e Cibercultura, Urra, Milano 1994;
M. Mazzotta, Come educare alla creatività, Giunti e Lisciani, Teramo 1990;
M. Mencarelli, Potenziale educativo e creatività, La Scuola, Brescia 1972;
V. Rubini, La creatività. Interpretazioni psicologiche, basi sperimentali e aspetti educativi, Firenze, Giunti, 1980;
A.D. Treffert, The Idiot Savant: A Review of the Syndrome, in American Journal of Psychiatry, 1988, 5.

Disclaimer
Questo lavoro è pubblicato su STUDIUM EDUCATIONIS, rivista per la formazione nelle professioni educative, n. 2004/3 “DISABILITÁ INTEGRAZIONE E PEDAGOGIA SPECIALE” ed è soggetto a copyright – non è pertanto sotto licenza Creative Commons. Viene pubblicato su queste pagine dietro permesso dell’autore.