di Beatrice di Giuseppe e Manuela Toraldo

“IL MIO TEMPO…”
Il mio tempo finisce nel nulla,
Dove finisce lo spazio e incomincia il nulla,
Lo spazio è infinito, ma il tempo no.
Per me si è fermato in un attimo
E sono entrato nel nulla”

A. P.

Tempi, luoghi e relazioni in una comunita’ terapeutico riabilitativa.

L’inserimento in una Comunità Terapeutico Riabilitativa rappresenta, per ogni utente, uno specifico segmento del proprio percorso di malattia e di riabilitazione. Può avvenire in concomitanza di uno stallo terapeutico oppure rappresentare un momento di cesura con il passato, in ogni caso segna sempre l’inizio di una nuova fase di vita per ogni utente che, lasciandosi alle spalle un determinato periodo, entra in C.T. con delle aspettative di cambiamento.

In sintonia con tali aspettative, la struttura intermedia si adopera con il paziente per organizzare in maniera congrua i suoi stati emotivi, offrendogli la possibilità di vivere una nuova quotidianità scandita da tempi differenti, spazi da personalizzare e modalità relazionali nuove rispetto al passato. Attraverso un rimando circolare dal singolo al gruppo, la funzione terapeutico riabilitativa si orienta di conseguenza principalmente su due polarità: la relazione gruppale e la dimensione temporale.

Il momento di ingresso in Comunità rappresenta infatti una vera e propria “immersione gruppale” iniziando dall’équipe che si occupa del singolo caso, ai gruppi dei laboratori, alla riunione clinica degli operatori, fino ad arrivare alla riunione degli utenti e degli operatori insieme. La dimensione gruppale rappresenta dunque lo scenario dove il paziente psicotico agisce i propri vissuti: la grave frammentazione del sé non gli consente una verbalizzazione esplicita e unitaria dei propri stati interni che vengono di conseguenza agiti confusamente e frammentariamente nei vari gruppi; questi, a loro volta, operano una sintesi di tali contenuti ed una restituzione digeribile e tollerabile per il paziente. La valenza terapeutica di una tale dimensione si esplica allora proprio nel continuo rimando tra le varie realtà gruppali, ma anche, a livello del singolo operatore, nella possibilità di condividere con il gruppo la responsabilità della cura, il massiccio carico delle proiezioni psicotiche e, in relazione a questo, la faticosa opera di metabolizzazione e restituzione.

La cornice temporale è fornita, anzitutto, dal contratto terapeutico (Borgia, Villa, 2000) che delimita il percorso comunitario all’interno di un setting patteggiato e verificato a partire da obbiettivi molto personali (ad esempio comunicare le fantasie suicidali o limitare gli episodi di autolesionismo) e più generali (rispettare le regole della CT, frequentare un laboratorio etc.).

Particolare attenzione è poi posta sulla ripetizione e sull’attribuzione di specifici significati a gesti, appuntamenti, rituali, pause di attesa. Si sottolinea dunque sia la circolarità della dimensione temporale, ossia la ripetizione continua, che la linearità volta alla progettualità e alla finalizzazione delle azioni quotidiane (Campoli, Candidi, 1998). Vengono così poste le basi per una ristrutturazione del sé, nonché per la percezione di una continuità relazionale.

Nelle comunità nelle quali prevale, al contrario, la sola funzione contenitiva la dimensione temporale si fa vaga, i progetti terapeutici schematici e spersonalizzati. L’impressione di trovarsi in un piccolo manicomio è molto forte; la relazione gruppale è assente o molto scarsa. Per tali ragioni la presenza costante di un pensiero gruppale è fondamentale; pensiero che da un lato tiene in considerazione la gravità della patologia, dall’altro si concentra sulle effettive potenzialità e possibilità di cambiamento del paziente. Riprendendo il pensiero di Racamier (1970) è allora sempre opportuno, dopo una prima e totale accoglienza della sofferenza e delle esigenze dell’utente, immaginare, intuire, anticiparne i progressi e gli obbiettivi terapeutici raggiungibili. Solamente attraverso questo passaggio, l’azione terapeutica può essere intesa come una concreta possibilità di un accompagnamento graduale e definitivo verso l’esterno.

L’interazione continua tra dimensione temporale e gruppale consente in definitiva di tessere la trama ed il senso della propria storia; è un processo continuo che si attua in maniera generale in ogni gesto quotidiano di relazione, ed in maniera più specifica e personale nei laboratori. Questi sono strumenti riabilitativi fondamentali volti a migliorare le capacità di relazione, ad attivare un processo di individuazione, a programmare e realizzare progetti personali, ad avviare e consolidare un processo di autonomia.
Nello specifico, nella struttura intermedia in cui operiamo, un discorso speciale merita il ruolo della supervisione: essa consente di integrare le elaborazioni di ognuno dei nove gruppi – laboratori presenti, da una parte con il clima emotivo globale della comunità, valutabile tramite il gruppo generale tenuto il lunedì mattina, dall’altra parte con il lavoro degli altri otto momenti gruppali che caratterizzano la struttura. La ricchezza e varietà di questi momenti, gestiti ognuno da un operatore psicologo dello staff, è finalizzata al tentativo di coinvolgere ogni ospite in almeno un gruppo.

Allo stato attuale stiamo valutando l’opportunità di sostituire, per almeno un anno, le supervisioni con processi di supervisione – coovisione svolti reciprocamente dai membri dello staff in maniera da poter confrontare “molecolarmente” le modalità di conduzione dei singoli gruppi e di giungere a momenti di riflessione seminariale, oltrechè a presentazioni dei casi clinici più rilevanti e interessanti.

Al fine di esemplificare e contestualizzare la complessità terapeutica della funzione temporale e gruppale sopra descritte, passiamo ora a presentare la nascita e l’evoluzione di uno dei nove laboratori della CT, “Il Thè con Noi”.

La fondazione del gruppo del the’

Il nostro laboratorio, della durata di un’ora e mezzo, si svolge ogni lunedì pomeriggio alle 17.00 presso la Comunità Terapeutico Riabilitativa Montesanto (ASL RME) nella stanza riservata agli ospiti semiresidenziali, cioè a quelle persone (da sei a dieci circa) che, al termine del percorso residenziale, usufruiscono della CT solo nello spazio diurno. Partecipano in maniera costante otto (di cui attualmente uno solo semiresidenziale) dei ventuno ospiti della CT (residenziali e non) con uno scarto in positivo o in negativo di due o tre persone.
Il laboratorio è nato innanzitutto dalla volontà di creare uno spazio peculiare che potesse stimolare la capacità di elaborare e di modulare affettivamente vissuti di noia, tristezza e vuoto percepiti in modo puntuale dai nostri ospiti durante il fine settimana.

Il sabato e la domenica la Comunità Terapeutica ha dei ritmi differenti, più lenti; il passaggio e la frequentazione di persone dall’esterno spesso si riduce di molto e le attività espressive e ricreative sono più rare. Il differente colore del fine settimana, se da un lato stimola una rappresentazione altra degli spazi e dei tempi della Comunità, dall’altro rende manifesti gli aspetti più drammatici e inconsolabili della malattia mentale.

Il laboratorio si inserisce quindi, come ingranaggio del più ampio sistema gruppale comunitario, in un momento estremamente delicato di riattivazione di risorse e di ricompattamento del sé, quale è quello del lunedì. Il suo specifico compito è sostanzialmente quello di dare ad ognuno la possibilità di “narrare una storia”. Il fine settimana si erge, in questo senso, a metafora del vuoto esistenziale dei nostri ospiti, mentre la possibilità di ricucire una storia del sabato e della domenica coincide con il tentativo di ricostruire il proprio percorso esperienziale. Stimolando innanzitutto la capacità di differenziare un vissuto negativo da uno positivo, si è iniziato a colmare questo vuoto attraverso la percezione di una differenza, e dunque attraverso il riconoscimento dei primi spiragli di un’esistenza basata sul contrasto di emozioni. Partendo da qui volevamo tessere, nel tempo, una trama di memoria affettiva che aiutasse ogni singolo partecipante a costruire o a ricostruire parti del proprio sé, contenute da e nel gruppo, reperibili ogni qualvolta il gruppo si fosse riunito.
Ci sembrava altresì importante lavorare sul miglioramento delle competenze di riconoscimento, gestione, circolazione delle emozioni, al fine di stimolare ancora di più l’apprendimento della capacità di modulazione dei propri stati affettivi.

Il laboratorio è strutturato in maniera non rigida, con poche regole che sostanzialmente consentono a tutti i membri del gruppo di partecipare alla riunione in maniera adeguata, avendo a disposizione ognuno un proprio spazio, nel rispetto di quello degli altri. Accogliere e confortare dunque, ma anche lasciare spazio, intuire e prevedere le potenzialità del gruppo sono stati gli elementi da noi maggiormente tenuti in considerazione. Racamier (Sassolas, 2000) a tale proposito parla della necessità di non sottovalutare nè sopravalutare la patologia mentale, e definisce anticipazione terapeutica quel processo attraverso cui, da una prima relazione che ricalca quella simbiotica madre – bambino nello stadio del narcisismo primario, il terapeuta, così come una madre accorta, riesce a rispondere ed anticipare i progressi del paziente – bambino nel corso del tempo. Nella pratica dunque ogni incontro inizia senza uno schema né un tema di discussione da noi proposto; si lascia così al gruppo la possibilità di decidere, esplicitare e raccordare contenuti emotivi propri che alla fine di ogni incontro convergono naturalmente in un tema affettivo unico. Sono inoltre salvaguardati i ritmi ed i tempi degli utenti, sia nella preparazione prima dell’incontro (allestimento della sala, preparazione di tazze e thè), sia nel gruppo stesso, rispettando, seppur stimolando, le modalità di partecipazione di ognuno.

Al di là delle basi teoriche di riferimento o dei fini riabilitativi che ci si pone di raggiungere, ogni laboratorio in generale e più specificamente l’atmosfera che si crea in esso, dipendono innanzitutto dalle sfumature affettive ed emotive di chi lo conduce e riflettono nello stesso modo interessi, abilità o passioni. Si potrebbe dunque ipotizzare che la percezione da parte degli utenti di poter essere accolti ed ascoltati in questo spazio abbia rispecchiato, almeno nella prima fase di formazione del gruppo, la nostra personale modalità di accogliere, così come un certo nostro atteggiamento di apertura e fiducia possa talora aver stimolato delle risposte in un gruppo che iniziava a costruire uno spazio dove stare.

In linea con gli obbiettivi preposti, il nome del laboratorio, “THE’ CON NOI”, scelto insieme agli altri operatori della Comunità, rimanda ai concetti di individuazione e appartenenza, ma anche a quelli di accoglienza e separazione: con la sua duplice valenza significativa (te e thè) invita infatti l’ospite a partecipare e a cimentarsi con gli altri in una relazione, attraverso la condivisione del rito del thè, sottolineando l’importanza di un qualcosa che unisce, ma anche del contributo unico e personale di ogni partecipante.

Setting

Il setting del laboratorio è pensato e formulato su cinque elementi base: Il thè, la poesia, la costruzione dello spazio fisico del gruppo, le regole implicite, le regole esplicite.

Il thé, la poesia, la costruzione dello spazio.

Il thé ha costituito il primo polo attorno al quale i partecipanti del gruppo si sono riuniti, attraverso una condivisione di tipo fondamentalmente orale. Ha rappresentato in qualche modo la pietra di fondazione, nonchè il primo strumento aggregativo. Oltre a ciò è stato introdotto per il significato simbolico della sua ritualità. Da sempre, in diverse culture, il rito del thè rappresenta infatti un momento di incontro e condivisione di significati profondi o di semplici chiacchiere. Dalle amiche che si riuniscono nel pomeriggio agli incontri più importanti e solenni, il momento del thè è investito di una valenza altamente rituale, dai tratti eleganti ma anche confidenziali.

Un lento processo di storicizzazione ha permesso al gruppo di appropriarsi interamente dello spazio del laboratorio anche attraverso l’inserimento di alcuni accessori pratici: un nuovo bollitore portato da un soggiorno a Londra, un portaincenso di ceramica fatto da un membro del gruppo appositamente per il laboratorio, l’introduzione di una lampada che contribuisce a creare una luce soffusa ed un’atmosfera calda, una bacheca regalata da un altro ospite per attaccare le poesie che di volta in volta vengono lette.

Gr.: “Potrei fare una torta per il thè la prossima settimana, magari prima dell’incontro…”
Ge.: “Sono contento del thè, buono il thè, buoni i biscotti, ottima l’idea.”
F.: “C’è una bella atmosfera qui, la luce della lampada….qui è bello perché non si urla mai…”

Inoltre, grazie a questo processo di storicizzazione, il gruppo ha iniziato a vivere l’oralità in maniera disinvolta e attiva. Attualmente il gruppo sembra aver trovato un equilibrio tra l’investimento, la gratificazione orale, e la possibilità di nutrirsi di contenuti mentali propri e altrui; la ricercatezza dei cibi e la degustazione del thè rimangono elementi importanti e fondanti, accanto però ad una forte componente di condivisione di esperienze emotive ed affettive.

Se il thè ha rappresentato la pietra di fondazione, la poesia ha costituito l’oggetto mediatore dell’espressione dell’individuo e del gruppo: oggetto “oggettivo” (fuori dal sé) e “soggettivo” (appartenente al sé) (Ferruta, Galli, Loiacono, 1994), elemento concreto e simbolico, nonchè spazio transizionale (Winnicott, 1971) nel quale poter esprimere delle parti del proprio sé, rimanendo al contempo protetto e riparato. La poesia coincide infatti con una “scena metafora” nella quale è possibile identificarsi ed esprimersi attraverso il riconoscimento di similitudini e risonanze emotive interne, che vengono proiettate e depositate in un oggetto esterno. Ha, d’altro canto, una funzione di catalizzatore degli stati affettivi del gruppo verso un’unica direzione, divenendo spesso la metafora della riunione e consentendoci, a volte, di percepire il gruppo come un corpo unico, le cui differenti sfumature emotive vengono magicamente convogliate, riunite, ordinate attraverso di essa.

Riportiamo a titolo di esempio una poesia letta in una riunione dove sono stati affrontati temi come il vuoto, la tristezza, il blocco esistenziale rispetto alla malattia e la difficoltà ad accettare un aiuto esterno; la sua lettura ha in questo caso consentito una condivisione comune dei significati emersi durante l’incontro, nonché una massiccia produzione di libere associazioni che hanno aiutato il gruppo a leggere e restituire più adeguatamente i vissuti emersi nella riunione.

DISCO ROSSO, Gianni Rodari.
Disco rosso!
Non si passa!
Il direttissimo è frettoloso:
“Non posso aspettare, divento nervoso.
E poi sono un treno molto speciale, cambiate subito questo segnale!”
Il disco rosso, senza parlare, la notte buia continua a scrutare.
“Ho a bordo un duca ed un’eccellenza: farmi attendere è un’impertinenza”.
Ma il disco rosso, occhio severo,
fissa e fissa lo spazio nero.
“Protesterò dal capo stazione,
farò reclamo in direzione:
tenermi fermo è certo uno sbaglio,
ho a bordo un ministro ed un ammiraglio!”
E fischia, e strepita a più non posso,
ma non gli dà retta il disco rosso.
Così se un giorno in terra o in mare il treno Guerra vorrà passare,
noi tutti uniti si griderà:
“Disco Rosso!
fermo là!”.

Alla domanda”Quale è il nostro disco rosso?” Il gruppo risponde:

A.: “Il disco rosso è sempre immobile.”
Al.: “E’ un ufo che esplora lo spazio, e qualche volta scende nei vari pianeti.”
M.:”Il disco rosso controlla e limita i sogni ed i desideri degli altri.”
R.:”Sono d’accordo con M..”
F.:”Ti dice quando ti devi fermare.”
C.:”Eh…il disco rosso….troppa robba….”

In ultima analisi la poesia rappresenta una preparazione alla fine dell’incontro: imponendo un ritmo differente al gruppo, richiama l’attenzione sul tempo che scorre e consente una chiusura consapevole della riunione. Il gruppo sa così che ci sono pochi minuti e che con la poesia può riordinare, depositare, metabolizzare pensieri, emozioni, stati d’animo emersi.

Il setting è stato dunque pensato in modo che tutti potessero partecipare alla costruzione di uno spazio in cui fosse possibile un confronto ed una condivisione di esperienze differenti (intorno ad un thè), metabolizzate nel gruppo e convogliate in un unico canale affettivo attraverso la poesia (oggetto che media). In questo senso l’iter di ogni riunione rappresenta l’auspicabile percorso evolutivo di ogni nostro ospite, che partendo da uno stato iniziale di estraneità e frammentazione, può percorrere, attraverso la condivisione ed il confronto, il cammino dell’integrazione tra le varie parti di sé.

Regole implicite.

Definiamo regole implicite un insieme di elementi facenti parte del laboratorio che si sono strutturati attraverso un graduale processo di intesa del gruppo. Non sono dunque nati come espliciti divieti o concessioni, ma sono maturati come taciti accordi, parallelamente alla crescita del gruppo stesso. Primo fra tutti il rispetto di ogni pensiero e conseguentemente l’assenza di censura su qualsiasi argomento. Questo implica la necessità di tollerare un certo grado di indefinitezza e l’impossibilità di prevedere, all’inizio del gruppo, l’andamento dell’incontro. La completa libertà di parola rende, d’altro canto, la percezione di questo spazio più autentica e maggiormente funzionale agli obbiettivi del laboratorio. Molto spesso, infatti, gli argomenti portati dal gruppo sono delle vere e proprie provocazioni e messe alla prova sulla effettiva nostra capacità di tollerare ma anche di dare risposte significative, congrue ed autentiche, rispetto a tematiche delicate quali la sessualità, la droga, la malattia mentale.

A proposito di droghe…
A.:”Ogni tanto ho il desiderio di cocaina. Sono stata dipendente per quattro anni. Da due anni e mezzo non più, ma mi rivengono in mente questi pensieri e ci sto male, piccole crisi di astinenza.”
Fi.:”Ma come ci si può cadere?”
A.:”Io manco fumavo poi le cattive compagnie…ma non solo loro. Per dieci volte la rifiuti, poi un giorno, più debole del normale, la riprendi. La depressione e la mia malattia sono state una conseguenza dell’astinenza.”

A proposito di un film visto al cinema..…
Fi.:”Non mi è piaciuto, non mi piacciono più, è tutto così scialbo: un genio della matematica poi premio Nobel, poi impazzisce.”
A.:”Secondo la critica la sua schizofrenia è poco messa in evidenza.”
S.:”Io non ci sono andata: una volta saputo l’argomento ho preferito non andare.”
Al.:”A me è piaciuto perché ha vinto il premio Nobel”.

A proposito di farmaci….
S.:”Mi trovo bene con gli operatori. Non sono d’accordo con la nuova terapia, alle tre e mezza di notte sono già sveglia con due occhi come un tegamino!”
A.:”Il tavor…quello sì che ti affossa!”
Ge.: “La medicina è una scienza esatta, altrimenti così piccole non farebbero niente.”
A.:”Non sempre ci azzeccano, ogni medicina ha un effetto diverso sulle persone.”
S.:”La terapia mi da un sacco di problemi, altrimenti sarei sempre allegra.”

In questo senso il ruolo dell’operatore muta continuamente: da conduttore a genitore, da mediatore a confidente a complice. I gesti ed il linguaggio cambiano a seconda della situazione ed è spesso molto complicato mantenere un atteggiamento autentico ma non collusivo, contenitivo ma non inibente, partecipe ma non invadente.

Una seconda regola implicita è rappresentata dalla non accettazione di comportamenti socialmente inadeguati in particolare quelli che bloccano, ostacolano o polarizzano la comunicazione. Tempi e modalità di interazione non sono stati mai esplicitamente definiti, ma nel momento in cui si sono presentate delle difficoltà, è stato rimandato con forza l’esigenza di condividere uno spazio comune, di ascoltarsi l’un l’altro, di impedire una massiccia irruzione di violenza verbale nel gruppo. Coloro i quali non hanno saputo tollerare tale grado di condivisione, spontaneamente si sono allontanati. Il gruppo è dunque attualmente composto da persone che volontariamente scelgono di starvi, prendendosi la piena responsabilità dei propri agiti. Questo si collega e si esplicita in maniera più concreta nella successiva regola: il rispetto dei turni di comunicazione (timing) (Mucchielli, 1983). Si è tentato cioè di creare un equilibrio tra l’espressione del singolo ed il rimando del gruppo. Un adeguato intervento degli altri rappresenta una fonte preziosa, uno strumento per far circolare le emozioni e per rendere il flusso della comunicazione più fluido per ampliare e osservare la storia di ognuno sotto differenti angolature. Il gruppo ha imparato a valorizzare l’ascolto, così come il rimando, come frutto di qualcosa che è stato accolto, metabolizzato, e restituito in modo diverso.

Regole esplicite.

Alcune regole esplicite sono state da subito stabilite al fine di creare un’atmosfera in cui il gruppo fosse facilitato ad esprimersi e a collaborare con e nel rispetto degli altri, e al fine di soddisfare il bisogno di rassicurazione rispetto all’esistenza di limiti e confini precisi. Prima fra tutte il divieto di fumare, che non solo permette di interrompere l’ossessiva ricerca di gratificazione orale data dalla sigaretta, ma è anche un modo di rispettare i non fumatori e dunque il gruppo più in generale.

Una seconda regola, applicata con una certa elasticità, è quella di non lasciare il gruppo durante la riunione. La fuga da contenuti emotivi molto forti e difficilmente decifrabili, rappresenta per lo psicotico il principale strumento di salvezza.

C.:”Non voglio fare il gruppo del thè, non mi piace, mi mette ansia stare accanto a voi.”
Dopo un po’ rientrerà rinfrancato da un sigaretta fumata all’esterno….

Senza mai raggiungere, quindi, un braccio di ferro violento e comunque sterile, le persone a disagio vengono stimolate a rimanere nel gruppo, ad ascoltare e a farsi accogliere. Spesso oggi il gruppo è da noi invitato a riflettere sulla effettiva necessità ed esigenza del singolo di allontanarsi dal laboratorio: ogni partecipante, incoraggiato, si autorizza a vestire i panni di colui che vuole uscire, modulando i propri stati emotivi su quelli dell’altro. Con l’ausilio di questo atto parlante, per utilizzare la felice e quanto mai funzionale definizione di Racamier (1970), il gruppo è investito di una nuova responsabilità: si erge a consiglio che discute e riflette sulla possibilità di far uscire la persona. Concretamente conquista un ruolo attivo rispetto ad eventi interni ed esterni, riconoscendosi il diritto di intervenire, decidere, agire. Dal canto suo il singolo percepisce l’appartenenza, l’importanza della sua specifica presenza – assenza e del suo personale intervento nel gruppo.

Il fine ultimo è dunque quello di stimolare la presa di coscienza di possedere una forza, data dalla coesione del gruppo, in grado di agire e trasformare le cose; nello stesso tempo viene messa in risalto l’importanza del contributo del singolo partecipante.

Facendo parlare ancora i gesti prima delle parole, nel tentativo di trasmettere in maniera chiara e diretta la necessità di costruire insieme, prima di poter condividere, abbiamo introdotto una terza regola esplicita: la doverosa partecipazione di ognuno all’allestimento pratico dell’incontro, consistente nella preparazione prima, e riordino dopo, delle tazze, del thè, dei biscotti, delle sedie all’interno della stanza. Ad ognuno è affidato un compito adatto alle proprie capacità, in modo tale che il suo adempimento rappresenti sempre una fonte di gratificazione, nella consapevolezza che la propria specifica azione abbia contribuito concretamente alla costruzione di quello specifico incontro.

Obbiettivi del laboratorio

L’obbiettivo principale del nostro laboratorio è la costruzione di un sé in grado di raccontare la propria storia, recuperando le tre dimensioni temporali di passato, presente e futuro, nonché la percezione di una continuità nelle differenti esperienze di vita: un senso pieno del trascorrere del tempo appare infatti strettamente collegato al buon funzionamento della capacità narrativa (Martini, 1998) e in definitiva del sé.

Ci si riferisce sostanzialmente ai concetti di memoria autobiografica (Correale, 1998) e di sé narrativo (Stern, 1985), che si esplicano nella capacità di integrare ricordi di esperienze vissute agli stati d’animo da esse scaturite. Le due funzioni si costituiscono lungo un continuum consapevole di andamenti oscillatori degli stati del sé in base alle proprie esperienze di vita.

La dimensione temporale diviene così visibile attraverso non più soltanto la capacità di rappresentare mentalmente gli eventi, ma anche, e sopratutto, attraverso la possibilità di narrarli unitamente agli stati affettivi ad essi connessi.

Nel paziente psicotico entrambe le funzioni risultano gravemente compromesse. Al posto di un fluire ordinato e continuo di emozioni connesse ad eventi vissuti, ritroviamo un insieme disordinato e frammentato di sentimenti ed esperienze che bloccano la persona in un eterno presente privo di una funzione narrante.

Il nostro laboratorio, attraverso la ripetizione sempre uguale dell’appuntamento settimanale, del luogo, del rito del thè, ha rappresentato inizialmente un contenitore ed un deposito saldo dei frammenti gruppali, sancendo in questo modo l’inizio del processo di ricostruzione del sé in termini di possibilità di sedimentare la propria storia in un luogo ben definito. Da qui ognuno è divenuto un testimone partecipe dell’esperienza dell’altro, ampliandola continuamente con contributi personali, con associazioni o esperienze simili, rimandando un sentimento di dignità e di realtà ai racconti del singolo narrante: la storia esiste (quindi io esisto) perché se ne discute, si condivide, si critica, viene ricordata. Di conseguenza, attraverso un continuo ampliamento concettuale (Alanzi, Correale, Carnevali, Di Giuseppe, Giacchetti, 2001), inteso come una modalità di conduzione che tende a universalizzare i contenuti affettivi portati dal singolo, al fine di creare una maggiore condivisione gruppale, abbiamo fortemente incoraggiato la circolazione e lo scambio di emozioni, unitamente alla possibilità di differenziare le stesse in positive e negative in base al racconto di esperienze vissute.
L’obbiettivo ultimo, come già accennato, coincide con la ricostruzione emotiva ed esperenziale della storia di ognuno, di modo che: (1) il tempo assuma una valenza personale e consequenziale, (2) le emozioni vengano collegate ai ricordi, (3) il passato, il presente ed il futuro trovino il loro significato in una mutua interazione, (4) il sé si ristrutturi attraverso il ritrovamento di una propria storia affettiva che evolve nel tempo e si riconosce nel proprio racconto. Da ciò viene attualmente incoraggiato un percorso di individuazione personale, attraverso la possibilità di effettuare, nel presente, continui “salti narrativi” dal passato, alla progettualità futura, in termini di percorsi terapeutici falliti, aspettative future, rimpianti, speranze.

Nell’avvicendarsi degli incontri non è possibile riscontrare una dimensione di causalità lineare, al contrario è presente una circolarità dell’azione in cui ogni fase rimanda alle altre. Tuttavia è importante sottolineare una gradualità nell’evoluzione che, partendo dalla prima, ha attraversato quelle intermedie, per giungere all’ultima.

Fasi del gruppo

Il processo appena descritto può essere rapportato alle fasi di un gruppo che, da un insieme di elementi che si riuniscono, si trasforma in un gruppo che lavora, il cui obbiettivo finale è l’individuazione di ogni singolo partecipante, a partire da un processo di condivisione ed identificazione iniziali.

Fase 1: la simbiosi

La prima fase ha avuto una durata di circa nove mesi, concludendosi con l’interruzione estiva del laboratorio alla fine di giugno 2001. La mancanza di una solida strutturazione, se da un lato ha favorito un lento ma continuo emergere di contenuti nel gruppo, dall’altro ha inizialmente creato profondo imbarazzo e paura. Provavamo una forte aspettativa sul coinvolgimento da parte dei pazienti, che al contrario spesso rispondevano ai nostri stimoli con un vuoto frustrante. L’esigenza di ancorarsi a qualcosa di concreto, al fine di creare un’identità di gruppo e di affettivizzare un luogo comune (Boccanegra, 1997) era molto forte e così ci siamo concentrate sulla costruzione del setting.

Dal canto loro gli utenti nutrivano delle profonde aspettative su di noi: all’inizio di ogni riunione si poteva chiaramente percepire un clima di attesa colmo di “speranza messianica” e “salvifica” (Neri, 1996). Il gruppo, dominato dall’assunto di base di dipendenza (Bion, 1972) si aspettava cioè di essere guidato, nutrito, salvato da noi.

Raccontare un’esperienza positiva ed una negativa della settimana appena trascorsa ha rappresentato, all’inizio di questa prima fase, la modalità elettiva di iniziare gli incontri. A turno i partecipanti parlavano, dando così il proprio contributo ancora timido e poco strutturato. Questa elementare modalità comunicativa, se da un lato ha limitato uno scambio articolato di pensieri all’interno del gruppo, riducendolo ad una modalità fondamentalmente diadica di comunicazione (operatore – utente), dall’altro ha assecondato la necessità di ogni membro di essere accolto e nutrito personalmente (holding; Winnicott, 1965), nell’iniziale incapacità di comprendere e mettere a frutto le potenzialità creative e contenitive proprie di ogni gruppo.

Ci è sembrato opportuno definire questa fase con il termine di simbiosi (Mahler 1972) pur consapevoli della forzatura attuata; ci permette tuttavia di sottolineare al tempo stesso lo stato di indifferenziazione del gruppo, unitamente alla primitiva capacità da parte di ogni membro di percepire un’identità sfocatamente distinguibile da sé, in grado di soddisfare i propri bisogni e nello stesso tempo di rispecchiare parti di sé ancora confuse.
Premesso che l’indifferenziazione e l’assetto simbiotico del gruppo sono stati gli elementi cardine di questa prima fase, occorre precisare che dopo un paio di mesi dalla nascita del laboratorio, il gruppo (anche quello allargato della Comunità Terapeutica) ha iniziato a collaborare attivamente con noi per la costruzione di un luogo personalizzato.

Successivamente è stata riconosciuta alla poesia la funzione di portavoce dei vissuti comuni, trovandole una precisa collocazione spazio – temporale; la gradualità di tale processo ha compreso tra l’altro un periodo di produzione da parte del gruppo che si è espresso, emblematicamente, in questa poesia di un partecipante:

“Pensieri”
Nella mia moltitudine di pensieri
uno, forse il primo,
va ai ciechi che pur non vedendo
sentono tutto, fino a leggere con le dita.
Tanto è lo sforzo che fanno per vivere,
quanto è sicuro che il Signore li ricompenserà di un così grande impegno,
per sfuggire alla depressione e all’angoscia di una siffatta vita.
F., aprile 2001

Il riconoscimento delle molteplici possibilità di ampliamento e rilettura che la poesia può concedere alla storia di ognuno ha permesso un ulteriore passaggio: era ora possibile ricordare eventi passati nel tempo e collegarli con quelli attuali, iniziando un lavoro di ricucitura sulla propria storia.

Questa prima fase si è conclusa affrontando tematiche legate allo “stare in Comunità”; tematiche dunque attuali ma rilette attraverso le lenti di un passato riconquistato:

An.:”Non capisco il senso di stare qui, per me è un’imposizione e basta, voglio uscire e lavorare.”
E.:”Anche io inizialmente la pensavo così; la Comunità mi ha portato via dalla mia famiglia. Però d’altra parte questo periodo forzato mi permette di avere una certa calma per gestire in modo equilibrato la separazione (legale) da mio marito, con cui comunque vorrei restare amica.”
A.:” Anche se sembra che stare qui non abbia senso, c’è poi un progetto voluto per ogni persona.”
Al.:”Stare in Comunità serve per la riabilitazione; il mio cambiamento è stato quello di adattarmi a stare in Comunità.”
M. (rispondendo ad A.): “Alla fine questo è un punto di appoggio accettabile e gradevole.”
F.:”La Comunità è un modo per non stare solo; da quando partecipo alle attività sono cambiato perché riesco a svegliarmi presto la mattina.”
Fi.:”Voglio tornare a casa da mia madre e mio fratello (e rispondendo ad A.) non si può andare a vivere da soli perché costa troppo!”
Ma.: “Sto male e non posso far altro che stare qui…d’altronde non l’ho deciso io di stare male.”

Fase 2: la transizione

La ripresa dopo la pausa estiva ha segnato l’inizio di una nuova fase: il gruppo si è autorizzato ad esprimere e a far circolare pensieri ed emozioni. Da capienti contenitori ci siamo così trasformati in testimoni partecipi, nonché mediatori, di affetti, emozioni e relazioni.

Una profonda trasformazione nell’utilizzo di un differente livello comunicativo ha rappresentato forse il più importante cambiamento in questa nuova fase, attraverso un passaggio da un linguaggio concreto che si esaurisce nel segno, ad un linguaggio simbolico, metacomunicativo. Gradualmente, infatti, il significato delle storie raccontate da ognuno, è divenuto condivisibile ed utilizzabile da tutti, talora come specchio o differenziazione, altre volte come ampliamento o metafora della propria storia:

S.: “Sono stata malissimo, non mi andava di vivere; voglio tenerezza, mi sento delusa dalla vita, penso intensamente al suicidio. Sono ipocrita, ho fallito in tante cose.”
A.: “Se si sente così avrà le sue ragioni, la capisco, anche io in questo periodo sto male.”
Ge.: “Se uno non trova una soluzione diventa depresso e da depresso ipocrita.”
A.: “’Stì giorni non ce la faccio più. Vorrei ridere e scherzare come i momenti di quel passato che io ho rovinato.”
Ge.: “E’ pur vero che siamo a marzo e non a maggio.”
C.: “Il mio fallimento è la musica. La musica mi risolleverebbe ma dovrei fare uno sforzo di qualità. Ricordo la tournè con Rascel: vorrei tornare come allora.”

L’assetto gruppale sembra infatti facilitare la formazione di piccoli nuclei di temporalità nel senso che da un evento raccontato possono scaturire una serie di associazioni su eventi passati che a loro volta possono rappresentare una differente e nuova chiave di lettura per gli eventi presenti e futuri.

Gli elementi emersi hanno al contempo implicitamente stimolato e reciprocamente rafforzato la nascita di una identità di gruppo. Utilizzando la metafora di Foulkes (1948) è possibile identificare il gruppo con una rete formata da tanti piccoli nodi (ogni membro) che insieme comunicano, sostengono, scambiano emozioni, comunicazioni, sono testimoni ognuno della storia dell’altro.

La nascita dell’identità del gruppo ha d’altro canto contribuito a generare non pochi attacchi invidiosi da parte dell’esterno nei confronti di quegli elementi di condivisione e intimità agognati e rifiutati al tempo stesso. Il nostro gruppo infatti, pur essendo aperto, richiede una sostanziale capacità di saper stare e di saper condividere con l’altro uno spazio e dei significati. In aggiunta a ciò è necessario essere in grado di tollerare l’integrazione, seppure parziale e momentanea, delle varie parti del sé che divengono visibili nel racconto e nel rimando del gruppo.

Il nuovo assetto ha tra l’altro consentito una migliore stesura scritta di ciò che accade ogni volta che ci riuniamo. Avevamo fino ad allora provato una certa difficoltà nello scrivere un elaborato coerente ed unitario che potesse da un lato fungere da memoria scritta di ciò che era successo, e dall’altro che potesse rappresentare, globalmente, il tono affettivo della riunione. La difficoltà di scrivere rappresentava allora la mancata integrazione delle parti del gruppo e rispecchiava mondi satelliti di ciascuno dei partecipanti, nell’impossibilità di trovare un codice di comunicazione affettivo condivisibile.

Fase tre: l’individuazione

La terza fase del gruppo comprende un periodo che va più o meno da dicembre 2001 ad oggi. Riprendendo le relazioni sugli incontri abbiamo constatato che i temi principali di tutto questo periodo hanno riguardato il dilemma “dentro – fuori” la Comunità.

Ge.:”Vorrei un argomento di conversazione (parla della sua fuga). Dal quartiere Prati a Prato (in Toscana), volevo fare un contratto con qualcuno invece assumono solo filippini, francesi, cinesi, sri – lanka, italiani no. All’hotel President ho mangiato quello che c’era al bar e dopo un giorno e mezzo me ne sono andato con l’aiuto di padre Pio in un alberghetto – villetta a Roveggio: mi sono lavato, ho mangiato; alla reception c’erano due ragazze iugoslave. Ho chiamato l’Emilia Romagna, due volevano che andassi a Bologna, non volevano parlare con me. Mi faceva male il cuore, sono andato all’ospedale. I bolognesi, gente dura: non danno da mangiare a nessuno. Vado a Modena sono gentili ma è gente dura. L’avvocato mi dice:”Non mi assumo la responsabilità di aiutarti”. Niente lavoro pochi soldi: tutto male: me ne vado a Milano a p.zza Duca d’Aosta in un negozio di quasi parenti di quando ero piccolo. Nella piazza c’erano tutti alberghi ed io mi sono perso nel nulla. Mi è venuto in mente di Carla e sono andata a trovarla: si è ricordata di me e mi ha dato subito dei pasticcini. C’era una banca Forza Italia con dottore infermiere e Tecnocasa. Dopo due giorni e mezzo parola chiave: – tornare subito a Roma on line-. Ho festeggiato il tentativo di fare qualcosa, dovevo provarlo.”
Ma. in risposta: “Se lei ha fatto un viaggio vuol dire che le andava di viaggiare. Può darsi che si aspettasse molto da se stesso e non lo ha avuto.”
A.: “Ha voluto fare ‘na botta de vita.”
Fa.:”Se si proviene da un CSM è più difficile.”
I.:”Perché il CSM è un marchio??”
F.:”In quanto a difficoltà psicologiche sì.”
Al.:”Non so che dire: è andato piuttosto lontano.”
Ge.: “Non so cosa farò ora: tra due anni andrò a Genova o in Puglia.”

Ciò che abbiamo intravisto è dunque la possibilità di giungere, in maniera sufficientemente adeguata, ad una sorta di individuazione di ogni membro del gruppo. Rifacendoci anche alle fasi del gruppo proposte da vari autori (Anzieu, 1976; Carli, Lancia, Paniccia, 1988) abbiamo immaginato che ogni membro potesse da un lato consolidare la sua identità nel gruppo e dall’altro trovare una spinta verso l’individuazione personale.

Tale risultato è maggiormente auspicabile se si tiene in considerazione che il nostro laboratorio è inserito nel contesto di una Comunità Terapeutica che lavora in tempi medi e medio – brevi in progetti personalizzati e che dunque il periodo di residenza di ogni ospite viene inteso come un percorso di accompagnamento verso l’esterno. Per tali ragioni il segmento terapeutico comunitario deve avere una scadenza prefissata al fine di evitare una regressione tendente alla perpetuazione di un andamento ciclico della malattia che blocca inevitabilmente la funzione progettuale. Da qui l’importanza di creare da subito un contratto con l’utente che entra in CT, che di volta in volta viene rinnovato e ampliato. Così le dimissioni, dovrebbero avvenire in concomitanza alla capacità dell’utente di tollerare una restituzione sufficientemente integrata del proprio sé.
In un tale contesto il senso del tempo assume un’importanza determinante se inteso come la possibilità di riconoscere ed utilizzare una serie di trame affettive interne indissolubilmente legate e reperibili nella propria memoria storica e utilizzabili per un percorso futuro.

Il compimento di questo processo di individuazione, seppure parziale, rappresenterebbe allora l’ultimazione del ciclo vitale del nostro gruppo.

Nello specifico l’inizio del terzo anno del laboratorio ci ha sorpreso per l’evidenza della sua semplicità: dolorosamente ma con determinazione il gruppo ha concretamente affrontato il tema della separazione.

Attraverso un divertente gioco di espressione di emozioni proprie e di definizione di caratteristiche personali, il gruppo ha stemperato gli aspetti depressivi legati al processo di separazione e ha stimolato il “passaggio del testimone” dai veterani ai nuovi entrati: i vecchi sono stati in grado di definire la loro immagine attraverso degli aggettivi che li caratterizzassero, i nuovi si sono presentati.

Ogni partecipante si è così espresso, aspettando imbarazzato ma anche compiaciuto il rimando del gruppo, che è arrivato puntuale, concorde e in alcuni casi anche pungente:

Fr.: “Sto bene perché sto studiando, sto male perché ho ancora crisi.”
A. si aggancia al discorso di F., raccontando le sue crisi; allora Ca le risponde:” Ha delle crisi perché è iperintelligente e ipersensibile. Anche io sono così, o tutto o niente; la confusione della mia stanza riflette la confusione del mio pensiero.”
Ge.:” Sono iperincavolato perché non ho una fidanzata.”
I.:” Anche io sono iperincavolata perché non trovo casa.”
Ca.:”Sono ipergrata verso I. perché è stata ipercarina con me; Ge. Iperrussa.”
S.:”Io sono ipercriticona, ma il thè freddo zuccherato mi rende felice; iperdrepessa, iperincompresa”; il rimando del gruppo è: “ipercocciuta.”
A.:”Sono iperdeterminata, incavolata, spaventata, ma anche iperdepressa.”
Ge. si definisce: “Abbastanza istruito, colto, distratto”; il rimando del gruppo è:” Ipersimpatico ma anche iperrompiscatole.”
M.:”Sono ipertutto, iperscheletrica, ipersensibile, iperpermalosa, ipermammona.” Il gruppo si dimostra d’accordo soprattutto su quest’ultimo aggettivo.

Infine attraverso questo continuo rimando dal gruppo all’individuo è stato possibile per gli anziani definire un’immagine di sé sufficientemente autonoma con la quale affrontare il passaggio ad un nuovo segmento terapeutico – riabilitativo, differente per ognuno.

Alcuni, infatti, per motivi di ordine pratico (coincidenza di più laboratori nello stesso orario) hanno dovuto scegliere il laboratorio che ritenevano più rispondente alle attuali esigenze, motivazioni, interessi; per altri il “nuovo” era poter ripercorrere un’esperienza gruppale fallimentare del passato riscrivendone la storia; per altri ancora ha assunto il significato delle dimissioni definitive dalla Comunità per intraprendere nuove tappe evolutive in strutture diverse come una Casa Famiglia oppure per riallacciare, almeno in parte, rapporti familiari resi più funzionali al proprio benessere.

Conclusione

La nostra esperienza ci suggerisce che la presenza di alcuni elementi come la continuità temporale, l’attivazione ed espressione di emozioni legate ad esperienze vissute, le potenzialità creative e contenitive proprie di ogni gruppo, stimolino nel paziente psicotico inserito in un laboratorio come il nostro, all’interno di una CT, nuove capacità relazionali, un senso di continuità del sé e dunque una ritrovata abilità nel narrare la propria storia. Questo processo è attuabile grazie alla progressiva storicizzazione del luogo e del tempo del gruppo, per cui ognuno è testimone e partecipe della storia dell’altro che viene continuamente costruita, riveduta, rimandata da e nel gruppo. La possibilità di ricordare e di narrare la propria storia dona nuova consapevolezza e, a nostro avviso, la capacità di modulare in maniera efficace i propri vissuti emotivi rispetto alle esperienze vissute. Si pongono dunque le basi per l’utilizzo della memoria autobiografica, ossia della capacità di collegare eventi vissuti a stati affettivi ed emozionali. Riteniamo inoltre che la consapevolezza di far parte di un gruppo forte ed in grado di agire, contenere, trasformare, possa stimolare ed accrescere delle potenzialità su se stessi e sugli altri. Il raggiungimento di tali obbiettivi presuppone un percorso di gruppo articolato nel tempo, che nel nostro caso abbiamo potuto osservare in tre fasi significativamente correlate: dipendenza, appartenenza al gruppo, individuazione. Siamo del resto convinte che questa sia solo una delle molteplici capacità di un gruppo di lavorare, di creare nuove vie, nuovi percorsi di integrazione, di cura e di vita.


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© Beatrice di Giuseppe e Manuela Toraldo.

Pubblicato come: Beatrice di Giuseppe, Manuela Toraldo, “STORIE DI COMUNITÀ”, Psichiatria e Psicoterapia (2004); vol. 23, N. 1, pp 49-63.