Freud, Jung, Ferenczi et al.All’inizio della mia attività di terapeuta mi sono trovato in una situazione critica di parziale stallo. Sentivo infatti una difficoltà nel riuscire a tenere insieme i concetti teorici acquisiti di recente e l’autenticità che mi proponevo di mantenere di fronte ai miei pazienti. Autenticità nella relazione e conoscenza teorica mi sembravano posizioni inconciliabili separate dalla loro stessa intrinseca natura. L’analisi didattica mi appariva estranea al contesto lavorativo, lo studio teorico mi sembrava eccessivamente astratto, le mie reazioni di fronte ai pazienti mi apparivano dettate da un impulsività incontrollabile e inopportuna.

Le prime sedute con i pazienti sono state caratterizzate infatti da una grande tensione che cercavo di tenere sotto controllo attraverso l’applicazione di rigide regole di setting e trincerandomi dietro un silenzio che mi illudevo potesse mettermi al riparo da errori e passi falsi.

In quel periodo il mio vertice di osservazione era centrato sulla possibilità di vivere relazioni con i pazienti nelle quali io sentissi di potermi muovere liberamente attraverso una consapevolezza degli eventi in corso, una autentica partecipazione ed una condivisione empatica delle sofferenze altrui. Questa posizione mi sembra oggi poter rappresentare da una parte una linea ideale lungo la quale cercare di muoversi in futuro e dall’altra una pericolosa linea idealizzata attraverso la quale si potrebbe rischiare di non accettare che le relazioni tra persone siano caratterizzate anche da confusione, tensioni ed elementi difficilmente sondabili.

Mi chiedo allora quali possano essere i fattori che, nel bene e nel male, condizionino i risultati di un percorso terapeutico, quali siano gli elementi che nel terapeuta possano costellare funzioni fondamentali per lo sviluppo individutivo del paziente, quale sia il rapporto tra la conoscenza teorica e l’esperienza personale.

Per Bion le pubblicazioni scientifiche e gli articoli

“dovrebbero essere letti ponendosi nella stessa condizione in cui ci poniamo quando conduciamo un’analisi: allontanando ricordi e desideri. Dopo di che dovrebbero essere dimenticati” ((Bion, W.R.; Analisi degli schizofrenici e metodo psicoanalitico, Armando, Roma, 1970, 249)).

Aggiunge Bion che essi

“possono anche essere riletti ma non per essere ricordati.” ((Ibidem))

Già Jung aveva affermato:

“Impara tutto ciò che c’è di meglio, ma dimentica tutto di fronte al paziente.” ((Jung, C.G.;Bene e male nella psicologia analitica in Opere, Vol XII, 1949))

Ma che cosa vuol dire “senza memoria e senza desiderio”? Che senso ha imparare per poi dimenticare? Come si può conciliare questa posizione con il mio essere persona autentica in relazione con l’altro? Il mio desiderio che la terapia vada a buon fine è dunque un rischio per la terapia stessa stessa?

Bion sembra essere di questo avviso quando dice che

“il desiderio di essere un buon analista impedisce di essere analista” ((Bion, W.R.; Analisi degli schizofrenici e metodo psicoanalitico, Armando, Roma, 1970, 237)).

Il paradosso risulta evidente, allora, se si pensi a quale possa essere la spinta del terapeuta ad intraprendere un cammino formativo in ambito analitico.

Di certo immagino che la spinta parta da un desiderio di compiere bene un proprio percorso. E’ del resto difficile immaginare che in un ambito lavorativo ci si possa formare senza il desiderio di lavorare bene, ma pensare di potersi formare come analisti evidentemente richiede una diversa capacità di intendere lo sviluppo personale e professionale.

L’incontro con l’altro, come sottolinea Martin Buber,

“presuppone la verità assoluta, la partecipazione dell’essere; nel rapporto con l’altro è importante apportare se stessi, donare il contributo del proprio spirito. Ogni autentico incontro e colloquio è una sfera ontologica che è costituita mediante l’autenticità dell’essere” ((Buber, M. Il principio dialogico, Ed. di Comunità, Milano, 1958, pag. 222))

Il vero incontro per Buber presuppone l’intero individuo

“ma tale interezza può essere messa in forse da una certa autonomia dell’Io che è desiderosa di affermazione” ((Carotenuto Psicopatologia dell’analista, in Rivista di psicologia analitica, Anno III, n 2, 1972, pag 438)).

È forse questa autonomia dell’Io a prevalere nei momenti in cui il terapeuta in formazione tenti di raggiungere un risultato positivo cercando di prevalere dunque con il controllo cosciente sulle forze inconsce, senza invece accettare la possibilità di un proficuo scambio tra di esse.

Credo che proprio per poter essere terapeuti senza memoria e desiderio Jung abbia pensato, come già aveva fatto Freud, di rendere obbligatorio il training analitico attraverso il quale scoprire che anche l’analista ha “i suoi punti ciechi che operano come altrettanti pregiudizi”

Dice Jung:

“I principi a cui la terapia si ispira implicano importanti requisiti etici culminanti tutti in un’unica verità: per riuscire efficace sii quello che sei veramente” ((Jung C.G.; Principi di psicoterapia pratica, in Opere Vol XVII, Boringhieri, Torino, pag. 81)).

È allora indispensabile mettersi in gioco in prima persona riconoscendo che ogni terapeuta possa e debba compiere un cammino personale insieme al paziente. Ogni incontro è, dunque, come afferma Jung, una nuova sfida “un lavoro da pionieri” ((Jung, C.G.; Psicologia della traslazione, in Opere Vol XVII, Boringhieri, Torino, pag 189)).

Intraprendere un percorso di formazione analitica mi sembra possa condurre all’abbandono delle certezze acquisite in favore di una consapevolezza che le condizioni di sofferenza e di disagio interiore possono aver influenzato persino la propria scelta lavorativa. Jung afferma che

“il medico di certo non ha intrapreso la professione di psichiatra senza motivo; si è particolarmente interessato del trattamento delle psiconevrosi, cosa che non potrebbe certo fare senza avere una qualche nozione sui suoi propri processi inconsci. Inoltre questo suo interesse per l’inconscio non potrà essere fatto risalire soltanto ad una scelta assolutamente libera, ma va ricondotto a una diposizione per così dire innata che l’ha fatto propendere fin dagli inizi verso la professione medica” ((Jung, C.G.; Psicologia della traslazione, in Opere Vol XVII, Boringhieri, Torino,pag. 188)).

La disposizione innata cui Jung fa riferimento potrebbe essere accostata al concetto di agape, termine tradotto con “amore o “capacità” secondo la versione della Lettera di S. Paolo ai Corinzi e che, illustrata da Lambert, appare essere collegata invece all’atteggiamento del terapeuta che dovrebbe esser

“sufficientemente benevolo e frutto della presa di coscienza degli elementi maligni e della loro, almeno parziale, sconfitta” ((Lambert, La personalità dell’analista nell’interpretazione e nella terapia, in La tecnica della psicologia analitica, pag. 54)).

Se dunque l’agape può nascere dalla capacità e dalla predisposizione dell’individuo al contatto con il prossimo, dall’altro però può essere considerato come il risultato del ritiro delle proiezioni e dell’avvenuta integrazione di parti ombra precedentemente negate. Il terapeuta, dunque, potrebbe essere una persona predisposta all’incontro con l’altro che, nel corso del suo training formativo e del proprio percorso di vita, abbia vissuto le stesse sofferenze che si accinge a patire insieme all’analizzando nel corso del processo analitico.

Carotenuto, studiando alcune posizioni teoriche di Neumann, Balint e Fairbairn, ha potuto accostare alla predisposizione del terapeuta, individuata da Jung, alcune esperienze affettive che possono indurre gli individui a scegliere il percorso formativo analitico. Rottura dell’Asse Io-Sè, carenza fondamentale, atteggiamento schizoide sono tre situazioni critiche che possono presentarsi nell’individuo che

“ha scelto una professione dove rivive di continuo la situazione originaria nel tentativo di renderla più sopportabile” ((Carotenuto, A.; Psicopatologia dell’analista, in Rivista di psicologia analitica, Anno III, n2, Marsilio, 1972, pag. 431)).

Anche A. Miller aveva notato come le condizioni di disagio del “bambino dotato” ((Miller, A.; il dramma del bambino dotato, Boringhieri, Torino, 1996)) lo portassero allo sviluppo di “antenne” per le condizioni psicologiche altrui e aveva ravvisato la possibilità che questi bambini, nel tempo, si accostassero alla professione analitica per una disposizione individuale nata sulla base di esperienze infantili in rapporto alla figura materna.

Se da una parte queste condizioni evidenziano una difficoltà nel cammino formativo professionale, dall’altra rendono più umana la figura del terapeuta il quale non risulterebbe più unicamente un predestinato, ma una persona toccata dal fuoco della sofferenza capace di accogliere il disagio dell’altro avendolo vissuto in prima persona.

L’analisi del terapeuta è soggetta, del resto, ad una serie di rischi che già Bion aveva individuato:

“Non conosco alcuno che abbia iniziato un’analisi senza avere paura degli elementi psicotici presenti in lui e che non pretendesse di raggiungere un risultato soddisfacente facendo a meno di incontrarli nella propria analisi. Soprattutto chi si occupa di training ha il compito di considerare questo problema. Il soggetto tenta di fronteggiare le sue ansie psicotiche diventando allievo sicché il fatto di diventare accettato come candidato funge da garanzia di immunità, da quelle paure, rilasciategli da chi è un’autorità in materia.” ((Bion, W.R.; Analisi degli schizofrenici e metodo psicoanalitico, Armando, Roma, 1970, 245))

È allora un rischio non da poco quello che Bion individua e che ha a che fare con la possibilità di diventare “pseudoanalisti” e di condurre le terapie “guardando il paziente dall’alto in basso”. Anche Carotenuto ha affermato che durante le analisi didattiche nell’allievo esiste latente il

“desiderio di non affrontare l’inconscio ponendosi più nella posizione di chi impara e ascolta che di chi rischia e si trasforma” ((Carotenuto, A.; Psicopatologia dell’analista, in Rivista di psicologia analitica, Anno III, n2, Marsilio, 1972, pag. 302)).

Ma come afferma Maffei:

“Nulla appare maggiormente estraneo al pensiero di Jung che un tentativo di teorizzazione che inserisca l’individuo in una visione teorica dei fatti che finisca poi per rappresentare uno schema di cui l’individuo stesso risulti prigioniero.” ((Maffei, G; In tema di psicopatologia: riflessioni critiche da un punto di vista junghiano in Rivista di psicologia analitica, anno III, n 2, Marsilio, 1972, pag. 287)).

Così come nell’analisi si auspica l’acquisizione da parte del paziente della capacità di far dialogare la propria dimensione conscia con quella inconscia, così teoria ed esperienza nell’analista dovrebbero potersi integrare senza escludersi a vicenda al fine di favorire nel terapeuta una disposizione allo scambio e alla condivisione autentica nella relazione con il paziente.

Immagine tratta da Wikimedia. Prima fila: Sigmund Freud, G. Stanley Hall, C.G.Jung; seconda fila: Abraham A. Brill, Ernest Jones, Sandor Ferenczi.

Potete leggere questo articolo anche sul blog di Salvatore Martini.