Pochi fenomeni hanno subito una crescita esponenziale e vertiginosa come quella che ha caratterizzato Internet negli ultimi dieci-quindici anni. Forse sono ancor meno le innovazioni tecnologiche capaci, a così breve distanza dalla loro diffusione iniziale, di entrare nell’uso comune, di cambiare o condizionare la vita quotidiana del cittadino, financo il suo modo di mettersi in relazione con gli altri. L’evoluzione tecnica del mezzo informatico, inoltre, è talmente rapida che spesso l’analisi di un fenomeno si completa quando il fenomeno stesso si è riadattato, trasformato in altro.

Anche sul fronte psichiatrico si è osservata una serie eterogenea di situazioni cliniche relativamente nuove, che la psichiatria ha fronteggiato con gli strumenti che possedeva. Sono nate così etichette per sindromi da dipendenza da Internet e simili, nel tentativo di incorporare nuovi comportamenti nella nosografia corrente, che è prevalentemente quella, di stampo americano, del DSM-IV.

Per evitare di cadere in uno sterile collezionismo di sindromi “à la DSM” (dipendenza da chat, dipendenza da computer, panico da “disconnessione” etc.) che nulla ci dice su cosa succede effettivamente “là dentro”, non resta che procedere pazientemente con alcune osservazioni di stile fenomenologico, alla vecchia maniera.

Un sistema complesso

Innanzitutto, siamo di fronte all’incontro fra sistemi complessi (il cervello, l’esperienza umana, il calcolatore elettronico, la Rete) che peraltro hanno raggiunto negli anni un’eccellente integrazione reciproca (quindi un insieme complesso di sistemi complessi). Il sistema uomo-macchina-rete ha dunque a disposizione un enorme grado di libertà e può svolgere una serie impressionante di operazioni di cui la Rete è spesso mezzo (leggere una pagina web, spedire un’e-mail), ma a volte anche destinazione (aprire una porta di un firewall, attivare un server).

In secondo luogo, così come non conosciamo i meccanismi di funzionamento del nostro cervello, ma ciò non ci impedisce di usarlo, non ci occorre sapere come funzioni il protocollo IMAP per leggere la nostra posta: noi lavoriamo con le interfacce, e loro si preoccupano di eseguire il programma stabilito (come il nostro DNA si occupa del “programma genetico” e la nostra corteccia cerebrale del “programma motorio”). La “facilità” o meno di usare il computer per l’utente medio è determinata dalla capacità di conoscere ed interpretare l’interfaccia (aprire un menu, spingere un pulsante, far comparire una finestra, impartire un comando), non il programma sottostante che il più delle volte rimane totalmente nell’ombra ed opera in maniera misteriosa ed invisibile.

In terzo luogo, la dimensione reale si arresta alla superficie dello schermo, lasciando il posto a quella che viene romanticamente definita come dimensione virtuale. In questa complessità di sistemi complessi ecco intervenire un ulteriore elemento di ambiguità: la stessa “realtà virtuale” si lascia definire malvolentieri, e ciò semplicemente perché non esiste. Il calcolatore è in tutto e per tutto un oggetto, così come i cavi di rete e le macchine che l’informazione percorre lungo il proprio viaggio telematico. E dall’altra parte di solito c’è un’altra macchina (ed un altro uomo). Tutto ciò è estremamente reale.

In questa ambiguità si gioca essenzialmente la nostra partita psicologica: il mondo virtuale, lungi dall’essere una realtà astratta e condivisa, sembra essere piuttosto qualcosa di molto concreto ed individuale, ovvero la nostra personalissima rappresentazione mentale di questo enorme sistema di sistemi, che ci permette di entrare in relazione con questo strumento e di gestirlo ad un livello di complessità molto più semplificato ed immediatamente fruibile. È dunque uno spazio-tempo mentale, “rappresentato” (con maggiore o minore precisione e consapevolezza), che si pone a sua volta come interfaccia fra ciò che è al di qua dello schermo e ciò che, di reale, è al di là (l’interno del calcolatore, la macchina remota, l’utente lontano). Essa è dunque costituzionalmente un luogo di transito, il vetro di una finestra che funziona meglio (ai propri fini) se trasparente e piatto, ma che il più delle volte assume le forme di una lente colorata e decorata. Talora, questi attributi estetici (e non solo estetici) esercitano un forte potere suggestivo e si combinano con altre circostanze (una certa inevitabile alterazione dello stato di coscienza, innanzitutto) fino a produrre fenomeni strani e a volte mostruosi (non necessariamente patologici: l’elemento estetico ed una simbolizzazione efficace rendono il lavoro più gratificante, quando non siano addirittura indispensabili, soprattutto per chi lavora massivamente con i calcolatori e le reti.).

La produzione di questa rappresentazione mentale è il prodotto dell’integrazione individuale e soggettiva di tre elementi: la competenza tecnica (quanto so di ciò che effettivamente succede sotto il cofano), l’eleganza dell’interfaccia (la metafora che mi viene offerta in partenza dall’applicativo), la capacità immaginativa personale (e la disponibilità a “figurarsi” in qualche maniera fenomeni astratti di questo genere).

Più è efficace (non necessariamente a livello cosciente) questa rappresentazione mentale, maggiore è la possibilità di contrapporre o quanto meno giustapporre alla “realtà reale” quella virtuale, di creare una specie di porto franco in cui reale e fantastico si mescolano in maniera fluida e misteriosa.

Senza alcuna ambizione classificatoria, possiamo distinguere dei quadri caratteristici.

Quattro esempi

La prima possibilità è che il luogo di transito si tramuti in luogo di residenza, creando una condizione di abuso e di isolamento. A ciò contribuiscono alcuni fattori: il presunto anonimato (comunque un anonimato nell’hic et nunc), l’annullamento dell’attesa fra pensiero ed azione, nonché fra bisogno e soddisfazione del bisogno (il computer risponde istantaneamente e – con la diffusione della banda larga – ora lo fa anche la Rete), una certa onnipotenza (la disponibilità simultanea ed immediata di tutte le informazioni), la disponibilità a priori dell’altro alla relazione (purché si cerchi nei posti giusti), la disponibilità sconfinata di materiale voluttuario da consumarsi privatamente (sostanzialmente di natura sessuale, ma recentemente affiancato ed a tratti anche superato dalla musica), lo svincolo, in virtù dei punti precedenti, dalla questione della vergogna, l’inaccessibilità fisica e quindi la garanzia della sicurezza del proprio corpo fisico.

È ben intuibile cosa possa accadere ad una persona in grado di stimolarsi autoeroticamente a volontà, libera dalla vergogna, senza ansia di relazione, in maniera onnipotente sia rispetto all’oggetto desiderio sia al tempo o alla fatica necessari per ottenerlo: semplificando, potremmo dire che si facilita una massiccia regressione in uno spazio erotico-ludico deresponsabilizzato che, limitatamente al rapporto con la macchina, riproduce il benessere del neonato all’inizio della poppata (tutto, inesauribile, permanente, buono e subito).

La seconda possibilità è che il luogo di transito diventi man mano via imprescindibile di relazione con il reale che sta “dall’altra parte”. La Rete ha amplificato l’orizzonte personale, lo spazio noto e familiare (non solo lo spazio fisico, ma anche quello antropologico) rendendolo costantemente a portata di mano: possiamo sapere istantaneamente cosa è successo in un paese lontano in guerra, ma anche cosa passa oggi per la testa dell’autore del nostro blog preferito o a che punto è la discussione che si è accesa su un newsgroup o su un forum cui abbiamo partecipato e che ci interessa molto. La Rete mantiene nel nostro orizzonte un sacco di cose e persone reali (anche se non le conosciamo dal vivo), quindi è strumento di relazione e – se si spegne – esclude tutte quelle relazioni dal nostro orizzonte, il quale improvvisamente si coarta al solo orizzonte dei sensi. È come quando una persona molto attiva si ritrovi in ospedale con una gamba rotta, magari senza telefono o televisione: il suo orizzonte è ristretto in quelle quattro pareti e sembra terribilmente circoscritto. Il punto è che quelle quattro pareti facevano parte fino a pochi anni prima del suo orizzonte normale, reale e largamente sufficiente. Di qui, l’ansia da “disconnessione”.

Terza possibilità è che il luogo di transito diventi luogo di relazione privilegiata. Alcuni aspetti già citati nel primo caso (anonimato, diminuzione dell’ansia da relazione, sicurezza fisica, immediata possibilità di fuga, deresponsabilizzazione) facilitano enormemente la relazione all’interno del medium telematico. I problemi sorgono quando questo canale diventa preferenziale rispetto a quello reale fino a sostituirlo. Peraltro tali relazioni con persone reali incontrate solo nel mondo virtuale sono condizionate da alcuni limiti intrinseci che l’abusante tende a trascurare: ove non c’è sensopercezione dell’Altro non c’è empatia (se n’erano accorti già i primissimi utenti di Internet, che avevano cercato di sopperire a questa mancanza con l’invenzione spontanea degli smileys) e ove manchi l’empatia l’Altro rimane (per quanto ci renda noto di sé) sostanzialmente nascosto dietro un punto interrogativo, consentendoci, anzi costringendoci all’uso di massicce proiezioni ed identificazioni proiettive. L’Altro, alla fine, è l’ombra che si muove dietro uno schermo su cui il più delle volte proiettiamo un nostro personalissimo film.

Quarta possibilità è che il luogo di transito sia sponda per un ritorno in sé, che sia metafora non di un mondo esterno né di un mondo virtuale, ma del nostro stesso mondo interno. Capita più frequentemente a persone giovani, tecnicamente molto competenti, che utilizzano il rapporto con la macchina e con il mondo informatico che essa racchiude, regolata da un codice noto o conoscibile, manipolabile, come alternativa ad un mondo esterno meno noto, meno conoscibile e meno manipolabile. Il tempo speso in “immersione” è tempo puro, ascetico, in contemplazione della perfezione, dell’ordine e della pulizia del codice. La scrittura di codice è scrittura e riscrittura di sé, è l’edificazione di una Torre di Babele interna che dà garanzia di incrollabilità, ma che non si conclude mai e che sorge esclusivamente nell’idios kosmos. Questi pazienti spesso soffrono di attacchi di panico quando costretti a rientrare nel mondo condiviso, ma è evidente che si tratta di una condizione diversa rispetto al secondo caso.

La Community

Spazio a parte meriterebbero le “Community” (e i forum, gli User groups etc.), situazioni costitutivamente gruppali, in cui il “reale” non si lascia sempre coartare, all’interno dei quali assistiamo a fenomeni estremamente interessanti. Accenneremo solo alcune questioni. Per quanto detto pocanzi, ad esempio, è frequente l’incursione e lo stanziamento in questi gruppi di personalità isteriche che hanno imparato ad ottenere il proprio vantaggio secondario attraverso la relazione telematica, più protettiva rispetto a quella reale. Questi utenti vengono di solito accolti benevolmente, poi, cercando sempre maggiore spazio ed attenzione, creano inevitabilmente nel gruppo una spaccatura fra sostenitori e detrattori; quando l’ostilità del gruppo supera la sua capacità di somministrare benevolenza e attenzione, lo abbandonano e ne cercano un altro (parliamo ovviamente di gruppi non tecnici, costituiti sulla base di passioni o con finalità culturali, in cui la soggettività dell’iscritto rappresenta un valore più della sua competenza specifica). Sottolineiamo che non si tratta del fenomeno dei trolls o dei lamers, vecchio quanto Internet stessa, ma di una situazione relativamente nuova e tutta da esplorare, anche negli effetti disastrosi che queste guerre interne lasciano nei gruppi che li hanno ospitati, soprattutto se non sufficientemente strutturati o moderati.

Ciò ci dà occasione di sottolineare come i “gruppi” telematici rispettino tutte le regole che caratterizzano i gruppi reali, con la sola differenza di una pressione molto più elevata da parte delle componenti emotive della relazione (gli “assunti di base” di Bion) e di un’esagerazione delle dinamiche interne: le persone più mansuete nella vita reale sono capaci di inviare messaggi pesantemente distruttivi ed aggressivi; il moderatore è secondo i casi messia o censore autoritario; la tolleranza alla frustrazione è bassissima (da cui interminabili flames); i nuovi utenti sono fonte di fastidio (chiusura paranoica); il gruppo rappresenta la soddisfazione del bisogno e va preservato come tale (resistenza al cambiamento), etc.

In Conclusione

Un’analisi clinica che si occupi solo della fenomenica trascurando questi aspetti è sostanzialmente un vano gioco tassonomico. Peraltro, sufficientemente considerate e comprese le peculiarità del mezzo telematico, la psicopatologia classica ha in sé tutti gli strumenti necessari a riconoscere, diagnosticare e indicare i trattamenti necessari al malessere di ciò che, computer o non computer, resta comunque e sempre un uomo.


© Alberto Gaston e Cristiano M. Gaston 2005 (questo brano è pubblicato come: A. Gaston, C. M. Gaston, “Sindrome da Internet”, in InnovAzioni, n. 4, settembre-ottobre 2005).