di Tamara Di Felice

Il modello biopsicosociale e il benessere dell’individuo

Nella nostra società la nascita di una cultura in difesa della dignità e dell’autoaffermazione della persona con disabilità ha contribuito, insieme ad altri cambiamenti significativi (Zucconi, Howell, 2003), a trasformare profondamente il concetto di Salute e Benessere. La salute è ora considerata all’interno di un continuum benessere-malattia che si articola lungo lo spazio delimitato da due estremi: morte e qualità della vita. La salute non è più considerata come conseguenza diretta dell’assenza della malattia ma riconosciuta nella sua intrinseca natura evolutiva e accezione positiva.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità, dal 1986 con la Carta d’Ottawa ((Organizzazione Mondiale della Sanità. Carta di Ottawa per la Promozione della Salute, 1986.)), propone un concetto di Salute che coincide con uno stato di benessere fisico, psicologico e sociale. La salute non è più un obiettivo isolato ma è una risorsa per la vita quotidiana; essa è determinata da una molteplicità di fattori biologici, psicologici e sociali che s’influenzano e determinano reciprocamente. L’individuo sociale o gruppo diviene protagonista attivo del proprio benessere e “Il principio generale per il mondo intero, per le nazioni, le regioni o le comunità deve essere il sostegno reciproco: dobbiamo avere cura gli uni degli altri, della nostra comunità e dell’ambiente naturale” (OMS – Carta di Ottawa per la Promozione della Salute, 1986).

Il modello che riassume questa prospettiva è quello Biopsicosociale; esso propone una visione sistemica (Von Bertalanffy, 1968) e globale (Zucconi, Howell, 2003) della salute che si fonda sulla consapevolezza che l’organismo umano può essere rappresentato come un sistema facente parte di sistemi più ampi come la famiglia d’origine, la comunità d’appartenenza, lo status socioeconomico, il contesto culturale a loro volta composti di sottosistemi in costante e reciproca interazione (Capra, 1996). Questa nuova prospettiva ha reso evidente i limiti del modello Biomedico che si fonda, principalmente, su due principi: il riduzionismo biologico e, quindi, la riduzione di qualsiasi altro livello d’analisi nello studio dell’uomo ad un substrato biologico e allo schema eziologico classico. Quest’ultimo considera la lesione organica come causa principale d’ogni processo patogenetico.

Il modello Biomedico non conferisce all’individuo o al gruppo un empowerment vale a dire un “potere psicologico relativo al senso […] di generare le azioni necessarie a mobilitare le risorse, ad ottenere e utilizzare ciò che è indispensabile per mantenere il proprio stato di benessere e far emergere le proprie potenzialità” (Francescano, Giusti, 1999) ma concepisce la relazione d’aiuto in un’ottica unidirezionale e unidimensionale.

Il rapporto tra medico e paziente prevede, infatti, che quest’ultimo sia caratterizzato da una certa dose di passività; il paziente, lo esprime il termine stesso, è remissivo, sottomesso e patisce sofferenze. Egli delega ogni competenza e responsabilità alla classe medica, che di risposta si occupa di identificare il malessere e di eliminare gli aspetti patologici dell’oggetto corpo (Carli, 1993).

La visione eco-sistemica, alla base del modello Biopsicosociale, restituisce alla persona un ruolo sociale, riconosce l’importanza della possibilità che l’individuo o il gruppo possa soddisfare i propri bisogni, realizzare i propri desideri e modificare l’ambiente in cui vive. Lo stato di benessere, di conseguenza, non è responsabilità esclusiva del settore sanitario o educativo ma comprende anche la responsabilità e quindi l’abilità a rispondere, il volere dell’individuo stesso.

Il modello Biopsicosociale ha attivato un nuovo processo culturale, che ha rivoluzionato i vecchi modelli dell’assistenzialismo e della medicalizzazione orientando sempre di più verso la consapevolezza che ogni persona possiede un certo grado di possibilità d’essere e di fare, di scegliere e utilizzare le proprie risorse.

I bisogni della persona con disabilità e la qualità della vita.

La definizione di salute così come è formulata, attualmente, dall’Organizzazione Mondiale della Sanità presenta diversi elementi di raccordo con il concetto di qualità della vita della persona con disabilità che è sempre più diffuso all’interno dei servizi che si occupano dell’area del ritardo mentale. Il termine qualità della vita pone l’accento sulla necessità di considerare la persona con disabilità entro un orizzonte più ampio, all’interno del quale l’intero arco di vita sia valutato come potenzialmente evolutivo.

A livello sociale, infatti, tale persona viene comunemente inquadrata nel modello simil-infantile che la pone in una posizione di permanente passività e subordinazione rispetto a chi si prende cura di lei. Si assiste, in questo modo, ad una cristallizzazione atemporale della persona in cui “passato e futuro sembrano essere congelati in un presente al tempo stesso predeterminato e predittivo” (Esposito, Giffoni, 1993).

Considerare la persona con disabilità all’interno di un progetto di qualità della vita vuol dire, al contrario, restituirle il suo status principale, che è prima di tutto quello di essere una persona, con la propria identità e soggettività; vuol dire andare oltre l’etichettamento che pone la persona con disabilità entro una categoria indifferenziata e offrirle la possibilità di attuare le potenzialità e abilità che la caratterizzano. Negli ultimi anni, si sono sviluppati in letteratura diversi modelli di qualità della vita (Felce e Perry, 1995; Parmenter,1988; Brown, Bayer e McFarlane, 1989; Schalock, 1991) ed alcuni autori (Cavagnola, Croce, Fioriti, Frigerio, Paterlini, 2000) hanno individuato un denominatore comune alla base di tali modelli.

Quest’ultimi fanno riferimento, tutti, ad una prospettiva ecologico-sistemica che considera la persona con disabilità sia in rapporto alla dimensione individuale (caratteristiche, abilità…) che in rapporto alle risorse socio-ambientali (relazioni supportive, partecipazione alla vita sociale…) offerte dal contesto in cui vive. La qualità della vita della persona con disabilità è influenzata dal suo benessere psichico-emotivo, fisico, materiale, sociale così come dalla possibilità di poter utilizzare le proprie abilità e di potersi esprimere in un ambiente in cui atteggiamenti sociali e valoriali favoriscano la sua integrazione e identità.

Tener conto, quindi, della globalità e unicità della persona con disabilità significa prendere in considerazione ogni elemento suddetto attraverso possibili percorsi di risposta spesso articolati e complessi, dei quali la relazione con la persona costituisce il tessuto connettivo

La relazione con la persona con disabilità e il processo d’aiuto.

L’intervento d’aiuto rivolto alla persona con disabilità deve essere necessariamente caratterizzato da una pluridimensionalità (Zanobini et al., 2005), vale a dire un’attenzione rivolta simultaneamente alla persona, ai diversi contesti in cui vive (famiglia, scuola, comunità…), al territorio e all’organizzazione dello stesso. Qualsiasi intervento, infatti, che si preoccupi solo di una parte della persona e non della sua globalità, porta inevitabilmente ad inasprire la condizione di sofferenza e dipendenza.

Le persone coinvolte nel processo d’aiuto, proprio per questo, devono essere in grado di sospendere il giudizio personale e costruire attribuzioni di significato che diano spazio ad un’analisi ampia dei sistemi di cui la persona fa parte e andare oltre gli abituali schemi mentali, radicati e rafforzati nella quotidianità.Tali schemi, che Bateson (1972) chiamava le “mappe” del mondo o Mezirow (1990) le “abitudini percettive” o Goffman (1983) le “griglie interpretative”, condizionano fortemente la relazione con l’altro e impediscono di entrare nel suo mondo e poterne comprendere i veri bisogni.

E’importante, quindi, “spezzare lo schema” (Goffman, 1983) e assumere punti di vista diversi, resistendo all’urgenza di leggere e vedere solo ciò che risulta familiare e che rientra entro i confini dei significati che si costruiscono; mantenere viva la curiosità e la passione per la conoscenza dell’altro così da instaurare un dialogo autentico e una reciprocità con l’altra persona.

Nella relazione con la persona con disabilità è necessario tenere sempre presente che quest’ultima può crescere e diventare adulta anche quando le gravi limitazioni dell’autonomia personale riducono, duramente, le possibilità d’autodeterminazione e le libere scelte di vita nella quotidianità. La persona con disabilità può riattivare le proprie capacità ed energie sopite e aumentare la propria autostima e autovalutazione.

Il processo d’aiuto, proprio per questo, comprende tra le sue funzioni principali quella dell’educazione, vale a dire, condurre fuori o trarre fuori ciò che nella persona vi è di potenziale allo scopo di tutelarne la dignità e allo stesso tempo aumentarne la libertà di scelta. Il processo d’aiuto, affinché non si trasformi in assistenzialismo, deve considerare la persona con disabilità all’interno di un percorso formativo flessibile e temporaneo che accompagni la persona alla costruzione di una propria identità e soggettività; un percorso individuale, sociale e culturale che riconosca alla persona con disabilità un proprio ruolo e ristabilisca nuovi equilibri nelle relazioni. Per realizzare questo, le persone coinvolte nel processo d’aiuto devono essere costantemente consapevoli dei propri sistemi valoriali, delle proprie concezioni etiche ed epistemologiche, del proprio modo di concepire la vita e la relazione con l’altro.

La persona che è promotrice del processo d’aiuto deve essere in grado di ascoltare i bisogni, le emozioni, le priorità della persona con disabilità e allo stesso tempo porre un’attenzione costante ai propri sistemi di riferimento, ai propri limiti e qualità. Deve, tecnicamente, saper “pensare in verticale ed agire in orizzontale” (Berne, 1971); questo permette di non sostituire la propria forma mentis a quella della persona con disabilità e di sostenerla facendole scegliere la forma migliore e il canale privilegiato con cui esprimersi.

È fondamentale considerare ogni comportamento della persona come segnale, espressione della sua personalità che può assumere significati diversi secondo il contesto in cui si manifesta e limitare ogni giudizio di valutazione che porti a considerare un comportamento come giusto o sbagliato.

L’analisi della domanda della persona con disabilità

Il primo passo del processo d’aiuto e dell’emancipazione della persona con disabilità riguarda l’analisi della domanda di quest’ultima. La persona, di sua iniziativa o insieme alla famiglia, si rivolge spesso ad un servizio socio-sanitario (come un centro diurno, un centro per l’orientamento al lavoro…) con l’intento di poter risolvere una serie di problemi che da sempre sono causa di sofferenza e disagio al livello personale e familiare.

Il servizio, innanzi tutto, dovrebbe offrire la possibilità alla persona di una riflessione in comune sul problema; in questo modo può conoscere e analizzare i dati della sua esperienza e individuare il significato della domanda stessa. In questa prima fase, l’operatore ha un doppio compito vale a dire quello di raccogliere il maggior numero d’informazioni possibili e quello di sviluppare un rapporto interpersonale con l’individuo. Nella maggior parte dei casi, la persona con disabilità o la sua famiglia, motivati da una condizione di disagio e sofferenza, delegano al servizio la gestione e risoluzione dei propri problemi e pretendono da questo una sorta di azione onnipotente; è di fondamentale importanza che il servizio stesso non colluda con tale richiesta ma, viceversa, si ponga all’interno della relazione come “traduttore simultaneo” (De Coro, Grasso 1988) di un testo scritto dalla persona e che solo quest’ultima può modificare e trasformare, attraverso un valido sostegno.

All’interno di un primo colloquio, quindi, l’intervento deve mirare alla restituzione alla persona della sua capacità di dare un significato alla propria esperienza e di comprendere quel che le accade; si deve accrescere il numero di possibilità e di scelta chi pone la domanda d’intervento e accompagnare la persona oltre la visione univoca e unilaterale del proprio problema.

Il servizio deve riconoscere alla persona la capacità di decidere il proprio progetto di vita, facendo perno sui suoi punti di forza piuttosto che sui punti deboli. Piuttosto che accertare la diagnosi riferita dalla persona al fine di certificarne il grado d’invalidità, il servizio ha come obiettivo quello di conoscere le sue capacità funzionali, il livello delle sue restrizioni personali e sociali e le sue condizioni socio-economiche, finalizzando tali valutazioni al raggiungimento delle condizioni di maggiore autonomia possibile e d’inclusione sociale.

L’analisi della domanda della persona con disabilità mantiene le sue caratteristiche anche quando, ad usufruire del servizio, debba essere una persona con disabilità grave, situazione in cui si può fare poco affidamento sulla consapevolezza di sé della persona. Anche in tal caso, infatti, la persona può essere protagonista del proprio progetto di vita e raggiungere la massima autonomia possibile, attraverso “un’adesione emotiva costruita e vissuta nella relazione” (Cooperativa ‘Il Pungiglione’, 2002).

La valutazione.

Ogni intervento che miri alla promozione della salute e alla cura della persona con disabilità è caratterizzato da una fase propedeutica costituita dalla valutazione. La valutazione si fonda su un’osservazione attenta e precisa della persona con disabilità, attraverso una serie di strumenti globali che indagano sul complesso dei repertori comportamentali della persona e forniscono elenchi di prove rappresentativi del suo comportamento, oggetto di valutazione. Gli strumenti diagnostici possono essere suddivisi, principalmente, in due categorie: normativa ed adattiva. La prima è caratterizzata da test che valutano lo scarto, nelle varie abilità, tra le persone con disabilità e quelle normodotate; la seconda da batterie di test che hanno come oggetto il comportamento adattivo della persona vale a dire, il tipo di risposta interattiva e integrativa della persona rispetto all’ambiente sociale di cui fa parte. Per valutare l’utilizzo dell’una o dell’altra categoria, o d’entrambe, è fondamentale prendere in considerazione il singolo individuo.

Qualsiasi valutazione deve fondarsi su un’osservazione strutturata e sistematica della persona, in modo tale da sfuggire ad interpretazioni che si traducano in impressioni del tutto personali e quindi prive d’oggettività. Solo in questo modo il processo di valutazione consente di costruire possibili percorsi educativi e riabilitativi ad hoc per ogni persona. La maggior parte delle persone che si rivolgono ad un servizio socio-sanitario è accompagnata, di solito, da una diagnosi esclusivamente clinica che non è sufficiente per sviluppare un progetto educativo individualizzato.

La diagnosi clinica, infatti, indaga la specificità dei sintomi, includendoli in una determinata classe nosografica; l’assunzione esclusiva di quest’ultima comporta molto spesso un etichettamento della persona con disabilità che può enfatizzare una prognosi infausta e, di conseguenza, favorire meccanismi di de-responsabilizzazione e idee precostituite nell’equipe coinvolta nel progetto di vita della persona con disabilità. La diagnosi clinica, quindi, costituisce un indice importante quando è utilizzata all’interno di un sistema complesso di valutazione che descrive lo spettro d’abilità e deficit della persona. Tale sistema include la diagnosi funzionale e il profilo dinamico funzionale, il piano educativo individualizzato e il progetto di vita.

La diagnosi funzionale e il profilo dinamico funzionale

La diagnosi funzionale è uno strumento che è utilizzato per porre in evidenza le aree di potenzialità e di carenza presenti nella persona con disabilità; essa si sostanzia in una descrizione dettagliata e scientifica del comportamento di quest’ultima, delle sue caratteristiche intrinseche ed estrinseche, del suo stato di necessità, della situazione/interazione che la caratterizza.

La diagnosi funzionale, contrariamente alla diagnosi medica, non si focalizza sul riconoscimento e sulla valutazione delle parti malate della persona ma sulle risorse presenti, sulle potenzialità residue potenzialmente attivabili. Questo strumento, infatti, recupera la dimensione del tempo e dello spazio, e ricostruisce, in modo dinamico e a vari livelli significati e contesti che caratterizzano la persona con disabilità. La diagnosi così si trasforma, davvero, in una conoscenza attraverso come indica l’etimologia della parola stessa. Essa mira ad individuare le funzionalità della persona e a finalizzare le conoscenze acquisite alla predisposizione del piano educativo individualizzato. Le informazioni che sono raccolte attraverso questo strumento, concorrono in questo modo all’identificazione del profilo della persona con disabilità; un profilo dinamico che sarà funzionale quanto più permetterà di definire gli obiettivi, il tipo d’intervento, i tempi e i luoghi d’azione.

Negli ultimi anni la diagnosi funzionale non è più considerata compito esclusivo di tecnici specialisti (Ianes, 1998) ma, al contrario, azione multidisciplinare che deve coinvolgere tutti gli attori che partecipano alla realizzazione del piano educativo individualizzato come educatori, specialisti sanitari e sociali, gli insegnanti, la famiglia. La diagnosi funzionale, infatti, diviene un valido strumento quando è strettamente connessa alla realtà della persona con disabilità e permette all’equipe che se ne interessa di attuare un intervento chiaro, incisivo e operativo nei suoi confronti.

La diagnosi funzionale consta, principalmente, di quattro aree fondamentali:

  1. dati anamnestici, clinico-medici, familiari e sociali.
  2. Livelli di competenza raggiunti nelle aree fondamentali dello sviluppo.
  3. Livelli di competenza raggiunti rispetto agli obiettivi del gruppo d’appartenenza (o classe).
  4. Aspetti psicologici, affettivo-emotivi, relazionali e comportamentali.

La prima area riguarda la situazione fisica, organica e fisiologica della persona. In questa parte della diagnosi sono descritte le caratteristiche tipiche della patologia ed esplicitate le necessità terapeutiche e riabilitative della persona. Sono presenti, inoltre, tre campi specifici d’informazione: l’anamnesi della persona, vale a dire gli eventi vissuti dalla persona rispetto alla sua patologia; la situazione attuale della persona con particolare riferimento alla diagnosi clinica; gli effetti riscontrati o prevedibili della patologia sullo svolgimento d’alcune attività. Sono, inoltre, evidenziati i seguenti punti:

  • La necessità di assumere farmaci.
  • La necessità e il tipo d’interventi riabilitativi e di varia natura.
  • La necessità di protesi, ausilii o altre tecnologie d’aiuto.
  • La programmazione nel tempo d’ulteriori visite e controlli.
  • Le persone specifiche di riferimento tecnico nei vari ambiti.

La seconda area fornisce i dati sul livello reale di competenza della persona con disabilità nei vari settori del suo sviluppo: cognitivo, linguistico, motorio, dell’autonomia personale e sociale e altri ancora. Questa parte della diagnosi funzionale contribuisce ad evidenziare il livello di funzionamento generale della persona: le abilità e competenze che la caratterizzano, quello che è in grado di fare.

La terza parte riguarda la valutazione dei punti di forza e dei deficit rispetto alle attività che la persona con disabilità svolge all’interno di un certo contesto o gruppo d’appartenenza quale può essere la scuola, il centro diurno o un centro per l’orientamento al lavoro. Nel caso in cui la persona con disabilità presenti delle buone capacità rispetto al gruppo d’appartenenza nel contesto in cui è inserita, la valutazione delle competenze sarà fatta alla stregua di tutti gli altri componenti del gruppo; se il deficit, al contrario, condiziona fortemente le abilità della persona, la valutazione è eseguita cercando di trovare un punto d’incontro tra le abilità della persona e gli obiettivi sui quali sta lavorando il resto del gruppo e che caratterizzano una specifica attività. Tale punto d’incontro può essere trovato attraverso una conoscenza sempre più approfondita delle abilità e dei deficit della persona e una semplificazione degli obiettivi.

La quarta area della diagnosi funzionale riveste un ruolo veramente importante giacché permette di conoscere, in modo più approfondito, gli aspetti psicologici e comportamentali che influenzano il benessere della persona con disabilità. Quest’area va a completare la descrizione prevalentemente biomedica e sociale, che ha caratterizzato in passato la diagnosi funzionale e a considerare la persona con disabilità all’interno di una maggiore complessità, che va oltre il saper fare o no alcune attività.

In un secondo momento, dalle numerose informazioni e dall’insieme di dati raccolti attraverso la diagnosi funzionale deriva una sintesi integrata delle caratteristiche essenziali della persona con disabilità che prende il nome di Profilo Dinamico Funzionale. Alla stregua della diagnosi funzionale esso è uno strumento valutativo dinamico soggetto a modifiche periodiche e, inoltre, è uno strumento interdisciplinare, funzionale e indispensabile alla compilazione successiva del Piano Educativo Individuale; garantisce la continuità tra quest’ultimo, la storia del soggetto e le sue potenzialità di sviluppo. La compilazione del profilo dinamico funzionale, a differenza della diagnosi funzionale, non richiede la presenza di personale medico ma di un gruppo di lavoro composto da diverse figure professionali quali educatori, psicologi, assistenti sociali.

Il profilo dinamico funzionale mette in evidenza sia le caratteristiche fisiche, psicologiche, sociali della persona con disabilità sia le difficoltà d’apprendimento, sia le possibilità di recupero o le capacità possedute che devono essere stimolate e rinforzate affinché non s’inaridiscano del tutto. Nella scheda per il profilo dinamico funzionale sono analizzate le seguenti aree:

  1. Area delle autonomie motorie: abilità motorie grossolane e fini.
  2. Area delle autonomie personali: alimentazione, igiene personale, controllo sfinterico, vestirsi/svestirsi…
  3. Area delle autonomie sociali: capacità d’orientamento, abilità pedonali, uso dei mezzi pubblici, utilizzo dei servizi della comunità…
  4. Area della comunicazione: comunicazione verbale e comunicazione non verbale…
  5. Area affettivo-relazionale: rapporto con gli altri, rispetto per gli altri, partecipazione alla vita di gruppo, rispetto delle regole…
  6. Area cognitiva: capacità attentiva, capacità imitativa, esecuzione di istruzioni, discriminazione visiva-tattile-uditiva-intermodale…
  7. Area operativa: interessi per alcune attività, uso di semplici utensili, mantenimento dell’attenzione e dell’impegno costante…
  8. Area dei bisogni e degli interessi: desideri, emozioni, sogni…
  9. Area familiare e dei comportamenti all’interno dell’ambiente di vita: informazioni desumibili dal colloquio con la famiglia d’appartenenza e osservazione della persona nei vari contesti relazionali…

Il profilo dinamico funzionale è finalizzato alla compilazione del piano educativo individualizzato.

Il Piano Educativo Individualizzato.

Con il Piano Educativo Individualizzato (PEI), le caratteristiche della persona sono trasformate in linee operative che permettono a quest’ultima di raggiungere la massima autonomia possibile. Oltre ad avere un valore prospettico, questo strumento permette, nella quotidianità, di definire una serie d’obiettivi a lungo, medio e breve termine che la persona con disabilità può raggiungere attraverso delle attività concrete (I.S.P.I., 1992).

Gli obiettivi a lungo termine sono quelli potenzialmente raggiungibili in una prospettiva temporale quantificabile dall’uno ai tre anni. Gli obiettivi a medio-termine sono quelli scelti sulla base delle priorità importanti per la persona; sono solitamente raggiungibili nell’arco d’alcuni mesi o di un anno. Gli obiettivi a medio-termine permettono di stabilire quali materiali, tecniche e interventi utilizzare e di iniziare a lavorare concretamente con la persona (Cavagnola et al., 2000). Nella maggior parte dei casi tali obiettivi necessitano di un’ulteriore scomposizione e semplificazione in sotto-obiettivi che costituiscono quelli a breve termine. Questi ultimi sono spesso organizzati in “sequenze[…] di sotto-obiettivi graduati per difficoltà” (Ianes, 1998), che facilitano l’apprendimento di nuove abilità e le possibilità di recupero di capacità già possedute.

Il piano educativo individualizzato, come la diagnosi funzionale, mostra gli aspetti positivi della persona piuttosto che quelli negativi rappresentati dalla minorazione (Esposito et al., 1993). Facendo perno sulle sue potenzialità, questo strumento permette, infatti, di costruire un intervento individualizzato e di stabilire la direzione lungo la quale gli operatori devono muoversi.

Il piano educativo si basa sul presupposto che la diversità è il valore essenziale d’ogni individuo e affinché non si trasformi in disuguaglianza è importante individuare l’attività educativa, riabilitativa, sociale proporzionata alle caratteristiche d’ogni persona. Tale individuazione richiede necessariamente il coinvolgimento, in prima istanza, della persona con disabilità e della sua famiglia e la co-costruzione con queste di obiettivi e contesti in cui la persona con disabilità può esprimersi.

Negli ultimi anni il PEI è diventato lo strumento più rappresentativo del Progetto di vita della persona con disabilità; un progetto che richiede la sinergia tra i diversi servizi sanitari e socio-educativi affinché siano promossi percorsi educativi integrati e globali per la persona stessa.

Il Progetto di Vita.

Ogni persona nasce con un Progetto di Vita (Ianes, 2003); nel primo periodo di vita, questo trova espressione soprattutto nei sogni, nelle aspettative come anche nei timori dei genitori del bambino; col tempo, si arricchisce in modo significativo dei contributi d’altre figure adulte che hanno un ruolo importante per il bambino stesso come educatori, insegnanti, assistenti sociali…

Crescendo, la persona assume come proprio parte di questo progetto stabilito da altri ma lo diversifica, lo caratterizza in base alle proprie risorse e ai propri limiti e alle opportunità che le sono offerte dal contesto in cui vive. Anche la persona con disabilità nasce con un progetto di vita che trova le prime configurazioni significative nell’immaginario conscio ed inconscio della famiglia non appena nasce il bambino e/o non appena è conosciuto il suo stato di svantaggio.

Nel riconoscere le differenze sostanziali che uno stato di handicap segnala rispetto al quadro della norma, la persona con disabilità ha il diritto di usufruire di tutte le opportunità che possano garantirle una crescita umana e sociale il più possibile equilibrata (La Malfa, Notarelli et al. 1988). Il progetto di vita ha lo scopo di accompagnare la persona in tutte le fasi importanti del suo sviluppo e di promuovere dei cambiamenti, che tendano al miglioramento e al soddisfacimento dei suoi bisogni. Proprio per questo, tale progetto non è specificato in un unico documento cartaceo ma in una serie di documenti relativi a specifiche fasi, attività di tipo sociale, occupazionale, cognitivo, o a contesti istituzionali socio-educativi. Esso, infatti, nasce dalla collaborazione di tutti coloro che ruotano intorno alla persona con disabilità e che ne sono i punti di riferimento: famiglia, docenti, educatori professionali, operatori socio-sanitari, specialisti, personale assistenziale, tutor, operatori negli enti locali, ecc… E’ caratterizzato da continuità e flessibilità e accompagna la persona in tutte le fasi della sua crescita. In ognuna di queste fasi il progetto è verificato, messo in discussione e aggiornato tenendo conto dei cambiamenti e degli obiettivi raggiunti e degli aspetti della persona su cui è necessario continuare a lavorare; il progetto di vita si svolge, quindi, attraverso continue ri-definizioni e adattamenti che devono permettere alla persona con disabilità le più ampie possibilità di espressione, rispettandone i tempi e i livelli individuali di apprendimento (Majani.e Callegari, 1988).

Il progetto di vita si rivolge alla persona nella sua globalità attraverso percorsi che investono l’area personale, culturale, sociale e che promuovono la crescita e l’integrazione a diversi livelli. Esso si completa con un progetto che riguardi la salute e, quindi, i possibili interventi terapeutici e/o riabilitativi e il tempo libero, con occasioni di socializzazione e di solidarietà all’interno della comunità.

Un intervento di questo tipo, in cui è fondamentale la centralità della persona, protegge quest’ultima dalla parcellizzazione degli interventi e, di conseguenza, dal rischio di una percezione frantumata del proprio sé.


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