Il problema dei diritti umani

In genere si pensa che la società occidentale sia giunta a un’esaustiva e definitiva enunciazione e comprensione dei diritti umani. Questi, secondo l’opinione diffusa, sarebbero universali, assoluti ed eterni, e guadagnati ormai in via definitiva, una volta per tutte.
Ciò significa che l’idea che ciascun essere umano abbia dei diritti inalienabili che devono essere tutelati a ogni costo, e allo stesso modo il dovere di rispettare le altre persone e di permettere loro il godimento degli stessi diritti, è ormai entrata nella coscienza comune.
Probabilmente, questa convinzione e fiducia estrema non è stata altro che la reazione all’esperienza delle due Guerre Mondiali, alle umiliazioni e alle torture che milioni di esseri umani hanno dovuto subire nel corso del secolo e alla scoperta della bomba atomica, che col suo potenziale di distruzione si era dimostrata in grado di annientare il pianeta.Per la prima volta, come ha giustamente affermato Jonas, il progresso tecnologico raggiunto dagli esseri umani è stato tanto grande da essere capace di distruggere la stessa umanità, di mettere a rischio la continuazione di “un’autentica vita umana sulla terra”[1].

Di fronte a questo, si è sentita la necessità di tutelare le libertà fondamentali di ciascuna persona umana, al di là della cittadinanza, della classe sociale, del sesso, attraverso una dichiarazione che affermasse con forza e in via definitiva l’esistenza e l’obbligo di tutela dei “diritti uguali e inalienabili di tutti i membri della famiglia umana”, che sono “la base di libertà, giustizia e pace nel Mondo[2]”.
La convinzione comune è dunque che tali garanzie siano inalienabili e insindacabili, che si fondino sulla categoria di “umanità” e che non sia né utile né tanto meno necessario mettere in dubbio quello che rappresenta un grande guadagno della società civile contemporanea, cioè la loro affermazione una volta per tutte.
In realtà, il problema dei diritti umani nasce ben prima delle due Guerre Mondiali, e pone delle questioni difficilmente risolvibili e probabilmente mai in via definitiva.
La storia dei diritti umani, la loro fondazione filosofica e la loro pratica politica e umanitaria mettono infatti in luce pregiudizi e confusioni la cui soluzione è molto più complessa di quanto possa apparire di primo acchito.
Occorrerebbe prima di tutto capire si intenda per diritti umani (e quindi quale sia l’ambito di loro applicazione, ovvero cosa significhi essere “umani”), se essi siano effettivamente fondati e in cosa si differenzino rispetto ai diritti civili.
Ci sarebbe, poi, da discutere sulla natura effettiva del problema: si tratta cioè di un problema filosofico, di un problema politico o di un problema umanitario? Bisogna discutere sulla fondazione di tali diritti, sulla procedura con cui vengono stabiliti e sull’autorità che li stabilisce o sulla loro effettiva efficacia?

La Déclaration des droits de l’homme et de le citoyen e la critica di E. Burke

Come abbiamo accennato, la prima dichiarazione sui diritti umani precedeva di quasi due secoli la Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo, approvata nel 1948, cioè nel secondo dopoguerra, dalla neonata Assemblea generale delle Nazioni Unite.
In Francia, nel 1789, ovvero all’indomani della Rivoluzione, era stata infatti redatta la Déclaration des droits de l’homme et de le citoyen, la quale stabiliva che “gli uomini nascono e rimangono liberi ed eguali nei diritti[3]”, e che “il principio di tutta la sovranità risiede essenzialmente nella nazione[4]”.
Si trattava di una dichiarazione, è il caso di dirlo, rivoluzionaria, allorché limitava il potere dei sovrani sui cittadini (la sovranità apparteneva al popolo, dunque non a un’autorità regia o divina) e di tutti su tutti, e per di più decretava l’esistenza di libertà non concesse dal sovrano, ma stabilite dagli stessi esseri umani.
Si trattava di diritti che prescindevano dall’esistenza di una comunità politica e sociale, e come tali erano assoluti (cioè sciolti da ogni vincolo, non goduti dagli uomini in forza di un contratto, ma semplicemente in ragione della propria condizione di esseri umani).[5]
L’uomo diventava dunque causa efficiente e causa finale di tali diritti, che non avevano bisogno di un’autorità che li istituisse o di una legge speciale, ma che valevano “di per sé”. Al contrario, ogni legge doveva basarsi su di essi e rispettarli, e ogni autorità non poteva esercitare un tipo di potere o di coercizione che andasse loro contro.
Prescindendo da ogni particolarità e individualità umana (sesso, religione, classe sociale), la Déclaration des droits de l’homme et de le citoyen, però, finiva col riferirsi ad un uomo “astratto”, sciolto da ogni vincolo sociale, e come tale effettivamente inesistente.
La categoria di “umanità”, sebbene sembrasse l’unica capace di dare un carattere di universalità e assolutezza ai diritti che si intendevano tutelare, rischiava infatti di rimanere una categoria vuota, che non prendeva veramente in considerazione le dinamiche (storiche e politiche, prima di tutto) da cui essa stessa era nata e che l’avevano resa possibile, e non si dimostrava consapevole delle caratteristiche necessarie alla sua validità anche al di fuori del contesto francese.
La Dichiarazione, infatti, pur essendo stata redatta in Francia, aveva come scopo principale il chiamare in causa ogni essere umano[6] e invitarlo a rivendicare i diritti che gli spettavano per natura, esortandolo a riaffermare se stesso come unica fonte del diritto e della sovranità dello Stato. Questo invito, com’è ovvio, era rivolto prima di tutto alle altre nazioni europee[7].
In effetti, nella prima metà dell’800 ci sarebbero stati numerosi moti rivoluzionari in tutta Europa[8], nati al fine di ricevere dai sovrani carte costituzionali e concessioni sulle libertà fondamentali di ciascun cittadino. Queste richieste, però, avrebbero avuto un carattere diverso da quello francese, dato che in questo caso la fonte del diritto a cui appellarsi sarebbe rimasta comunque l’autorità regia, e i diritti che si sarebbero chiesti sarebbero stati i diritti del cittadino, non dell’uomo semplicemente in quanto uomo.
D’altro canto, non tutti i popoli del mondo si fecero portatori di tali richieste, dato che, e lo vedremo in seguito, la richiesta di simili garanzie poteva venire solo da un popolo di cittadini e non più di sudditi (dunque da un popolo che avesse maturato una sorta di “coscienza popolare”, rivelandosi in grado di rivendicare la propria sovranità).
La questione dei diritti umani si intrecciava inevitabilmente, dunque, con quella dello Stato[9].
La domanda che non può che presentarsi davanti a chi si interroghi sulla natura dei diritti umani, quindi, non può che essere questa: “Che differenza c’è tra diritti umani e diritti civili?”.
La Déclaration des droits de l’homme et de le citoyen, infatti, non spiegava se i termini “uomo” (homme) e “cittadino” (citoyen) dovessero intendersi come due aspetti della stessa cosa o si riferissero a due identità che potevano anche non corrispondere (ovvero, se potessero esistere uomini-non-cittadini e cittadini-non-umani).
Di primo acchito, come abbiamo detto, pare che la nozione di “uomo” preceda quella di “cittadino”, e che dunque sia possibile l’esistenza di “uomini” (quindi esseri umani che godano dei diritti umani) che non siano anche “cittadini” (ovvero membri di uno Stato).
Come vedremo, però, il rapporto tra i due termini si configura come molto più complesso, arrivando ad esiti inaspettati.
Il primo ad accorgersi di tale ambiguità fu il Lord inglese Edmund Burke, il quale proprio all’indomani della Rivoluzione di Francia si sarebbe detto del tutto contrario alla nozione stessa di “diritti umani”.
Non i “diritti umani”, ma i “diritti reali” (nel suo caso, quelli che chiamava “i diritti di un inglese”), i diritti tradizionali e concessi da sovrano sarebbero infatti stati per Burke gli unici ad avere una qualche validità e a potersi rivelare anche di una qualche efficacia.
Il fatto che tali libertà non fossero concesse dal governo le rendeva agli occhi di Burke totalmente infondate. Di più, esse potevano rappresentare un pericolo per l’esistenza stessa della società:

“Contro questi [i diritti dell’uomo], non vi è consuetudine normativa, non vi è trattato che obblighi, non è ammessa transazione: ogni piccolo elemento detratto dalle loro pretese assolute costituisce frode e ingiustizia. Davanti a questi diritti dell’uomo, nessun governo ritenga che la propria lunga esistenza o la giustizia e la mitezza della propria amministrazione siano protezioni efficaci.[10]”

Uno dei principali stimoli e formare una società civile (che è il prodotto di una convenzione) – dice Burke – “è che nessun uomo dovrebbe essere giudice della propria causa.[11]” All’interno della società deve essere posto un freno alle passioni, devono esserci pesi e contrappesi, pene e sanzioni che assicurino a tutta la compagine sociale la coesistenza pacifica e il suo perdurare. Ogni limitazione e ogni freno vengono meno laddove si parli di diritti inalienabili, imprescrittibili, assoluti, astratti, universali, eterni. Queste formulazioni mettono infatti in crisi la società e il lavoro dei governi, e possono, per Burke, costituire un pericolo.
D’altro canto, le libertà sono (e devono essere) sempre suscettibili di modifiche, e di certo non si può tentare di stabilirle attraverso una codificazione astratta:

“I freni posti agli uomini vanno annoverati, come sono le loro libertà, tra i loro diritti. Ma dato che le restrizioni e le libertà cambiano con i tempi e le circostanze, ammettendo un numero infinito di modifiche, non le si può certo stabilire una volta per tutte mediante una codificazione astratta. Nulla è più stolto che discuterle in base a un principio astratto.”

Burke mette poi in luce il rapporto tra i diritti umani e la sovranità, che verrà ripreso da Hannah Arendt.
La Déclaration stabiliva infatti che la sovranità fosse della “nazione”[12], mentre Burke rimaneva fedele all’idea della sovranità del “re”.
Dopotutto, egli diceva, anche quando era stata in condizione di farlo, ovvero durante la Rivoluzione Gloriosa, l’Inghilterra aveva scelto di non rifiutare l’antica struttura di governo, la quale era l’unica che si fosse rivelata in grado di seguire la natura delle cose. Così come accadeva per la trasmissione della corona, anche le libertà degli inglesi erano tramandate in via ereditaria, e rappresentavano le uniche libertà che avessero un senso e che potessero essere realmente tutelate.
L’Inghilterra aveva scelto di conservare, infatti, l’eredità dei progenitori:

“Nella famosa legge del terzo anno di Carlo I, detta Petizione dei Diritti, il Parlamento dice al re: «I vostri sudditi hanno ereditato questa libertà», e ne afferma le franchigie non sulla base di principi astratti come “i diritti dell’uomo”, ma quali diritti d’inglesi e quale patrimonio trasmesso dai loro progenitori.[13]”

Gli inglesi avevano perciò scelto di rimanere sudditi, e non di diventare cittadini. Questo, però, non negava loro i diritti fondamentali (quelli che i francesi avevano definito “diritti umani”) ma, anzi, li rendeva ancora più validi ed efficaci in forza del fatto che erano concessi dal sovrano, in via ereditaria, in virtù della propria condizione di inglesi.
La loro validità ed efficacia si fondava su quella della stessa struttura di governo, il cui potere si fondava sull’autorità dell’eterno ieri[14].
Dopotutto, i diritti umani potevano anche considerarsi sostanzialmente inutili, dato che non consistevano nient’altro che nei diritti civili, di cui gli inglesi godevano da tempo.
L’obiezione di Burke, dunque, non stava tanto nel fatto che non possano esistere dei diritti, ma che i diritti “reali” non possano essere fondati su una categoria come quella di “umanità”, perché sarebbero prima di tutto vuoti e impossibili da tutelare efficacemente. I diritti “reali” sono invece quelli fondati sulla sovranità regia, che possono apparire prima facie non-universali, ma che si rivelano gli unici “veri”:

“Negando come false le rivendicazioni di diritti presunti, non intendo ingiuriare quelli reali. […] Quali che siano le possibilità di ogni singolo, questi ha diritto a esercitarle purché il farlo non calpesti i diritti di altri e pure ha diritto a una giusta parte di quanto la società, armonizzando in tutti i modi abilità e forza, può fare in suo favore. In questa compartecipazione tutti gli uomini hanno diritti uguali, ma non a cose uguali.[15]”

Dopotutto, anche volersi appellare a un presunto amore per l’umanità sarebbe incredibilmente ipocrita. Ogni tipo di affezione nasce prima di tutto dal legame che si ha con la propria “piccola squadra”[16].
La convinzione di Burke, sebbene di primo acchito possa apparire estremamente conservatrice, si rivelerà invece (almeno in alcune parti) sorprendente negli anni successivi, e servirà addirittura ad illuminare le riflessioni che Hannah Arendt farà in merito alla questione dell’apolidicità e alla categoria di “umanità”.
Burke, per ragioni prima di tutto storiche, non ha infatti presente la condizione tragica dell’apolide, che mette definitivamente a nudo la problematica dei diritti umani a tutti i livelli (filosofico, politico e umanitario). Egli, infatti, non può prendere in considerazione dei casi in cui possano venir meno i diritti politici, civili e sociali, quelli a cui ha diritto ogni cittadino (Burke, lo ripetiamo, riferendosi agli inglesi parla di “sudditi” e non di “cittadini”), e dunque le sue riflessioni, pur rimanendo di capitale importanza per la comprensione del problema dei diritti umani, non sono ancora esaurienti.

La tragicità della condizione umana nella figura dell’apolide

Fino all’800, i diritti umani venivano invocati ogniqualvolta degli individui venivano minacciati dallo strapotere dello Stato.
Si trattava quindi di una sorta di diritti speciali, invocati in casi eccezionali dai cittadini, quando i diritti normali, cioè quelli civili, garantiti dallo Stato, rischiavano di venire meno[17].
Il problema della confusione tra “uomo” e “cittadino”, che era nato dalla Déclaration del 1789, non si poneva nemmeno: l’uomo era per natura “uomo politico”, cittadino di uno Stato. Nonostante i due termini potessero riferirsi a “nature” diverse, trovavano sempre l’unità nella realtà.
Nel ‘900, però, questa identificazione venne meno, allorché ci si trovò di fronte a una figura totalmente nuova: l’apolide.
L’apolidicità, ovvero la non appartenenza a uno Stato, infatti, costituisce un fenomeno di massa moderno, che acquistò importanza dopo la Grande Guerra[18].
Fu proprio la Francia, la patria dei diritti umani, la prima a stabilire nel 1915 che il governo potesse revocare la cittadinanza, cioè “denaturalizzare” e “denazionalizzare”, un cittadino di origini “nemiche”. Fecero seguito negli anni successivi analoghe iniziative da parti di tutti gli stati europei. Ciò diede vita a dei gruppi che non potevano godere di quei diritti che erano stati ritenuti “inalienabili e indipendenti dalle circostanze politiche[19]”, ma che, di fatto, non potevano essere tutelati. Paradossalmente, per godere dei diritti pre-politici, la cui fonte del diritto era l’uomo stesso e non lo Stato, era necessario infatti far parte di uno Stato! Gli apolidi potevano così vivere o sotto la legge eccezionale dei trattati sulle minoranze[20], o fuori da qualsiasi legge.
Il caso emblematico è sicuramente quello degli ebrei:

“Esseri ebrei non dà alcuno status giuridico in questo mondo. Se cominciassimo a dire la verità, e cioè che non siamo altro che ebrei, ciò significherebbe esporci al destino degli esseri umani i quali, non essendo protetti da alcuna specifica legge o convenzione politica, non sono altro che esseri umani. Mi è difficile immaginare un atteggiamento più pericoloso, perché realmente viviamo in un mondo in cui gli esseri umani in quanto tali hanno cessato di vivere per tanto tempo; perché la società ha scoperto che la discriminazione è la grande arma sociale con cui uccidere gli uomini senza spargere sangue; perché i passaporti o i certificati di nascita, e qualche volta persino le ricevute dell’imposta sul reddito, non sono più documenti ufficiali, ma questioni di differenziazione sociale.[21]”

Pur avendo una storia, una cultura, una lingua, gli apolidi non avevano uno Stato. Di più: non avendo uno Stato, la loro storia, la loro cultura, la loro lingua, non avevano alcun significato, alcuna rilevanza, alcuna importanza. Essi potevano essere vittime di totale indifferenza, giacché nessuno era in obbligo con loro.
Quello che sembrava impossibile e che pareva solo un esperimento mentale adottato dai contrattualisti, cioè l’esistenza di esseri umani fuori dallo Stato, cioè membri di uno “stato di natura”, effettivamente esisteva.
Questo portò a realizzare che ogni individualità, qualora non fosse stata protetta da uno Stato, avrebbe perso di valore. Ogni dichiarazione astratta di un qualche diritto che si sarebbe dovuto godere in virtù della propria umanità rimaneva lettera morta se l’essere umano non era anche cittadino.
Ciò che Hannah Arendt mette in luce ma che, come sottolinea Agamben[22], forse non svolge fino in fondo, è il nesso che lega diritti dell’uomo e stato nazionale.
Crediamo, però, che questo nesso venga comunque fuori (d’altra parte, già Burke l’aveva, magari inconsapevolmente, messo in rilievo), e anche con forza, e che si colleghi ancora una volta al rapporto tra “uomo” e “cittadino”.
Gli apolidi, infatti, erano uomini-senza-Stato, ma avevano una nazionalità. Questo metteva in crisi il concetto stesso di Stato-nazione:

“Gli apolidi avevano già rivelato una sorprendente tenacia nel conservare la loro nazionalità. […] I nuovi apolidi non potevano più esser definiti “de nationalité indéterminée”. Anche se […] non identificavano la loro nazionalità con un governo visibile e riconosciuto, essi conservavano un forte attaccamento per la loro origine nazionale.[23]”

Può esistere dunque un uomo che sia solo un uomo.
È utile a questo punto tornare all’articolo 3 della Déclaration des droits de l’homme et de le citoyen:

“il principio di tutta la sovranità risiede essenzialmente nella nazione”

Sebbene gli apolidi avessero una nazionalità, essi non costituivano una nazione, cioè una comunità di persone unite da uguale tradizione, cultura, lingua e consuetudine e organizzata in uno Stato.
Tradizionalmente, rivela Arendt, l’umanità non era infatti vista come “famiglia di individui”, ma come “famiglia di nazioni”.
I diritti umani non erano, dunque, universali, astratti ed eterni, così come si credeva, ma valevano solo per i cittadini che vivevano in uno stato nel quale la sovranità apparteneva al popolo, e non al Re o a Dio.
La fonte del diritto, allora, non risiedeva tanto nell’essere umano, quanto nel popolo, che aveva la sovranità. Questo rendeva i diritti umani relativi allo sviluppo nazionale, dunque storicamente dati, presenti solo “a certe condizioni”. La sorte dello stato-nazionale e quella dei diritti umani venivano, dunque, a intrecciarsi.
Ma se solo i cittadini di un certo tipo di stati potevano far parte dell’umanità, ne conseguiva che non bisognava essere umani per diventare cittadini, ma si poteva essere umani solo in quanto cittadini!
Gli apolidi, dunque, non solo non erano cittadini, dato non facevano parte di uno Stato, ma non potevano essere considerati neanche umani, giacché questo significava prima di tutto essere cittadini. Essi erano dunque solo vivi (possedevano la “nuda vita[24]”, e niente di più).
Gli apolidi non erano umani, ecco la tragica conclusione! Essere umani significava far parte di uno Stato, dunque, essendo stati privati della cittadinanza (o avendo rinunciato a essa, come accadde in certi casi[25]), erano stati privati allo stesso tempo anche dell’umanità, e dunque del godimento di qualsiasi diritto si potesse definire “umano”. La “nuda vita” degli apolidi era un puro fatto, senza valore, e non costituiva una ragione sufficiente per riconoscere loro dei diritti. La nuda vita era spogliata di sacralità, e l’unica cosa che si potesse dire degli apolidi era che essi erano “nati” e “vivi”, ma non per questo dotati di “dignità umana”.
Tutto quello che era stato affermato con la Déclaration francese del 1789 si rivelava dunque fallace. Non l’essere nati, ma esseri nati all’interno di uno Stato conferiva lo status di “uomo”.
Se le cose stavano così, era allora ovvio che gli apolidi avessero perso i diritti umani. Non era però chiaro di quali diritti essi fossero stati privati:

“Benché tutti siano d’accordo nel ritenere che il dramma degli apolidi consista appunto nella perdita dei diritti umani, nessuno sa quali diritti essi abbiano perduto.[26]”

Ma cosa significa far parte dell’umanità? Cosa significa godere dei diritti umani?
Essere privi di diritti umani – per Arendt – non significa essere privati del diritto alla vita, alla proprietà, alla privacy o alla felicità. Questi sono diritti specifici che vengono tutelati dagli stati, diritti civili. Neanche il diritto alla libertà, dunque, è un diritto umano.
Diritto umano, invece, è il “diritto ad avere diritti”:

“La disgrazia degli individui senza status giuridico non consiste nell’essere privati della vita, della libertà, del perseguimento della felicità, dell’eguaglianza di fronte alla legge e della libertà di opinione (formule intese a risolvere i problemi nell’ambito di determinate comunità), ma nel non appartenere più ad alcuna comunità di sorta, nel fatto che per essi non esiste più nessuna legge, che nessuno desidera più neppure opprimerli.[27]”

Essere privi dei diritti umani significa essere vittime di indifferenza, essere superflui:

“La privazione dei diritti umani si manifesta soprattutto nella mancanza di un posto nel mondo che dia alle opinioni un peso e alle azioni un effetto. […]. [Le persone private dei diritti umani] sono prive, non del diritto alla libertà [che è un diritto civile], ma del diritto all’azione; non del diritto a pensare qualunque cosa loro piaccia, ma del diritto all’opinione.[28]”

L’umanità, dunque

“non si realizza mai nell’isolamento e nemmeno nell’esposizione della propria opera al pubblico. Può realizzarla solo chi espone la sua vita e la sua persona al rischio della sfera pubblica.[29]”

Agli apolidi è stato tolto questo diritto, ossia il diritto ad avere diritti, il diritto a essere responsabili pubblicamente delle proprie azioni, a “vivere in una struttura in cui si è giudicati per le proprie azioni e opinioni”[30].
Ecco, allora, che i diritti umani non sono i diritti civili, ma sono fondamento e condizione necessaria dei diritti civili. Essere umani significa poter essere cittadini.
Perdere, infatti, i diritti civili (cioè quelli che erroneamente vengono considerati “diritti umani”, che dipendono, come abbiamo detto, dalle specifiche comunità, e che dunque non possono essere considerati universali, eterni e in ogni caso sciolti da qualsiasi vincolo), non significa perdere la “dignità umana”, ossia smettere di essere umani, di essere considerati membri di una comunità politica[31].
Perdere i diritti umani significa, invece, perdere la possibilità di godere di qualsiasi diritto civile. Il possesso dei diritti umani diventa dunque condizione necessaria per il godimento dei diritti civili, ovvero condizione necessaria per essere cittadino, cioè parte di uno stato e in situazione di eguaglianza con tutti gli altri membri di quello stato.
La figura dell’apolide metteva in crisi l’identità degli stati nazionali e la loro stessa esistenza proprio per questa mancata condizione di parità. Lo stato nazionale, infatti, non può neanche esistere una volta infranto il principio dell’uguaglianza di tutti di fronte alla legge:

“Dai trattati di pace del 1919 e 1920 in poi, profughi e apolidi hanno accompagnato come una maledizione il sorgere dei nuovi stati, fondati sulla falsariga dello stato nazionale. Questa maledizione contiene i germi di una malattia mortale per i nuovi organismi. Perché lo stato nazionale non può esistere una volta infranto il principio dell’eguaglianza di tutti di fronte alla legge. Senza questa eguaglianza […] esso si risolve in una massa anarchica di privilegiati e di diseredati. Le leggi che non sono eguali per tutti danno luogo a privilegi, qualcosa che contrasta con la stessa natura dello stato nazionale. Quando questo non è in grado di trattare gli apolidi come soggetti giuridici e lascia ampio campo d’azione all’arbitrio delle misure poliziesche, difficilmente resiste alla tentazione di privare tutti i cittadini del loro status e di governarli con una polizia onnipotente.[32]”

Di fronte a questo paradosso, che intrecciava al contempo livello filosofico, storico-politico e umanitario, gli stati nazionali si sono trovati di fronte a due possibilità: risolvere il problema degli apolidi (dando loro una “nuova” cittadinanza, ossia naturalizzandoli in un nuovo stato o rimpatriandoli nello stato da cui provenivano) o ignorarne l’esistenza.
Entrambe le possibilità, però, si dimostravano impercorribili dal momento che gli apolidi costituivano un fenomeno di massa, che non poteva essere né risolvibile in poco tempo e con le sole forze di uno Stato, né ignorabile a lungo.

Il fallimento della categoria di “umanità” e l’umanità come “fatto”

La categoria di “umanità” usata nella Déclaration del 1789, presupponeva che i diritti scaturissero immediatamente dalla “natura” dell’uomo, indipendenti dalla storia e da ogni privilegio accordato a un gruppo o a una classe di uomini a scapito delle altre. Adesso, invece, si scopriva che la natura, che gli illuministi francesi avevano voluto mettere al posto della storia, finiva col condurre alle medesime conclusioni[33].
Come abbiamo ricordato all’inizio, l’uomo del ‘900 era arrivato a scoperte tecnologiche che l’avevano portato a dominarla e a costituire una minaccia alla sua stessa esistenza.
Il ruolo che prima veniva attribuito alla storia o alla natura, secondo Arendt, nel XX secolo è stato dunque assunto dall’umanità, che più che un’idea si è venuta a costituire come “fatto”, fatto inevitabile.
Non si tratta, quindi, di riaffermare la categoria di “umanità” come garante dei diritti umani, né di considerare risolta la questione. Si può semplicemente prendere atto del “fatto” dell’umanità.
In questa prospettiva, a garantire a tutti gli individui il “diritto umano”, cioè a riconoscere il loro “essere uomini”, e quindi il diritto ad avere diritti, ovvero il diritto di ogni individuo ad appartenere all’umanità, non può che essere tutrice l’umanità stessa.
Solo in questo modo si può ristabilire l’eguaglianza che mancava prima della Déclaration del 1789 e che questa non era riuscita comunque ad eliminare. Il fatto che la tutela dei diritti umani spetti alla stessa umanità non significa, però, che non possano derivarne gravi conseguenze[34].
D’altra parte, essere chiamati, in quanto membri dell’umanità, a tutelare il diritto di tutti di esserne parte allo stesso modo, contrasta prima di tutto col metodo tradizionale usato per affermarli, ovvero le dichiarazioni dei diritti e i trattati[35], le quali, in un modo o nell’altro, vengono ratificate dai governi statuali e non dai singoli uomini. Alla luce del già discusso rapporto uomo-cittadino, tale delega può portare a esiti nefasti, derivanti prima di tutto da una divergenza di interessi tra governo di uno Stato (che compirebbe un’azione politica) e esseri umani (che compirebbero un’azione umanitaria).
Il rischio rimane comunque uno: che l’individuo non venga considerato portatore di valori, di esperienze, e come tale irripetibile, ma che tutte queste caratteristiche “personali” vengano astratte per far posto al solo carattere della “nuda vita”.
Spogliando l’umanità di tutti i connotati particolari, si rischia infatti di ridurre l’uomo a pura esistenza, e quindi di lasciar essere quella di “umanità” una categoria vuota, incapace di cogliere la ricchezza e la meraviglia stessa dell’essere umano.
Da una parte, dunque, gli apolidi rischierebbero di diventare portatori della sola esistenza; dall’altra, all’interno della comunità politica si potrebbe arrivare alla neutralizzazione della lotteria naturale tra gli uomini, alla perdita di ogni genere di differenza e diversità tra di essi[36].
In altre parole, si potrebbe arrivare a svuotare l’umanità del suo stesso significato.

Note
  1. Proprio alla luce degli avvenimenti della Seconda Guerra Mondiale e delle nuove scoperte tecnologiche che rischiavano di rivoluzionare – se non di eliminare definitivamente – la vita degli esseri umani, Jonas ha formulato il “principio responsabilità”, il quale, con evidenti echi kantiani, è stato così riassunto: “Agisci in modo che le conseguenze della tua azione siano compatibili con la permanenza di un’autentica vita umana sulla terra”. H. Jonas, Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, Einaudi, Torino 1993, p. 16.
  2. Preambolo alla Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo, approvata nel 1948 dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Tali diritti varrebbero per tutti, “senza distinzione alcuna, per ragioni di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di ordine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione” (art. 1 Dichiarazione universale).
  3. Art. 1, che nella formulazione del progetto elaborato da La Fayette suonava così: “tutti gli uomini nascono con dei diritti inalienabili e imprescrittibili”. Cfr. G. Agamben, Homo sacer, Einaudi, Torino 2005, p. 140-141.
  4. Art. 3.
  5. “Significava che da allora in poi l’uomo […] sarebbe stato la fonte del diritto”. (H. Arendt, Origini del totalitarismo, Edizioni di Comunità, Torino 1999, p. 403).
  6. Mauro Barberis, in Filosofia del diritto scriverà a questo proposito che la Déclaration “illustrò esemplarmente il baldanzoso universalismo del tardo illuminismo francese, così lontano dal cauto relativismo montesqueiano”. Condorcet, ricorda Barberis, in Observations sur le vingt-neuvième livre de l’Esprit des lois avrebbe criticato proprio Montesquieu affermando che: “Una buona legge dev’essere buona per tutti gli uomini, come una proposizione vera è vera per tutti”. (M. Barberis, Filosofia del diritto, Il Mulino, Bologna 1993, p.33 e nota 56).
  7. In particolar modo l’Inghilterra. Come ricorda Anna Martelloni, infatti, il 4 novembre 1789, la Revolution Society di Londra formulò un messaggio di felicitazioni all’Assemblea Nazionale di Francia, nel quale si auspicava che quanto accaduto nel Paese continentale potesse spingerne altri a rivendicare i “diritti inalienabili del genere umano” in modo tale da promuovere riforme politiche generali. Edmund Burke opporrà a questa la reazione opposta, scrivendo una “lettera indirizzata a un gentiluomo di Parigi”, che diventerà il capitale testo Riflessioni sulla Rivoluzione in Francia, di cui parleremo tra poco. Nell’uno o nell’altro caso, comunque, i fatti di Francia rimanevano il più grande avvenimento della storia moderna, che rischiava di estendersi agli altri paesi europei, e sul quale dunque non si poteva non riflettere. Cfr. E. Burke, Riflessioni sulla Rivoluzione in Francia, Ideazione editrice, nota 4, p. 269.
  8. Sarebbero iniziati negli anni ’20 e ’30 per raggiungere l’acme nel 1848.
  9. Riteniamo, a questo punto, necessario riportare la definizione di “Stato” proposta da Charles Tilly: “Un’organizzazione che controlli la popolazione occupante un determinato territorio costituisce uno stato se e in quanto 1) si differenzia rispetto ad altre organizzazioni che operino sul medesimo territorio; 2) è autonoma; 3) è centralizzata; e 4) le sue parti componenti sono formalmente coordinate le une con le altre. (“Sulla formazione dello stato in Europa. Riflessioni introduttive”, in C. Tilly (a cura di), La formazione degli stati nazionali nell’Europa occidentale, Il Mulino, Bologna 1984, p. 70.) Sebbene quella di Tilly sia più completa, crediamo che un’altra definizione fondamentale sia quella data da Max Weber in La politica come professione: “Lo stato è quella comunità di uomini che, all’interno di un determinato territorio, pretende per sé il monopolio dell’uso legittimo della forza fisica.” In entrambe le definizioni, comunque, emerge forte l’importanza del territorio, che costituirà successivamente uno degli aspetti meglio di altri riusciranno a mettere in luce le difficoltà di risolvere la questione dell’apolidicità.
  10. E. Burke, op. cit., p. 81.
  11. Ivi, p. 83
  12. Agamben nota giustamente che questo segna “il passaggio dalla sovranità regale di origine divina alla sovranità nazionale”. G. Agamben, op. cit., p. 141.
  13. Ivi, p. 55.
  14. Ovvero, prima di tutto, su un costume consolidato. Cfr. M. Weber, La politica come professione, Einaudi, Torino 2002.
  15. Burke, op. cit., p. 82
  16. “Essere legati al proprio ambiente, amare la piccola squadra a cui si appartiene nella società, è il primo principio di ogni affezione pubblica. È il primo di una serie di legami percorrendo il quale giungiamo all’amore per il nostro Paese e per il genere umano.” Ivi, p. 70
  17. H. Arendt, op. cit., p. 406.
  18. J. H. Simpson, The Refugee Problem, Institute of International Affairs, Oxford 1939, p. 231.
  19. H. Arendt, op. cit., p. 374
  20. Una serie di trattati di pace con cui tra la prima e la seconda guerra mondiale la Lega delle Nazioni cercò di risolvere il problema delle nazionalità nell’Europa orientale e meridionale affidando a un popolo il governo dello Stato e cercando di tutelare gli altri popoli, che da questi dovevano essere governati, attraverso trattati sulle minoranze. Questo tentativo si rivelò fallimentare, non essendo soddisfacente né per i popoli statali né per le minoranze, e soprattutto non avendo forza giuridica, dato che erano stati sottoscritti sotto riserva dai governi europei.
  21. H. Arendt, “Noi profughi”, in Ebraismo e modernità, Feltrinelli, p. 47
  22. G. Agamben, op. cit., p. 140.
  23. H. Arendt, Origini del totalitarismo, p. 392-393.
  24. Cfr. G. Agamben, op. cit.
  25. H. Arendt, Origini del totalitarismo, p. 392.
  26. Ivi, p. 406.
  27. Ivi, p. 409
  28. Ivi, p. 410
  29. H. Arendt, La lingua materna, Mimesis, Milano 1993, p.55.
  30. Origini, p. 410.
  31. Ivi, p. 412.
  32. Ivi, p. 402
  33. Ivi, p. 412.
  34. A giudicare da quanto dice Arendt, i pericoli potrebbero essere prima di tutto quelli dell’eugenetica o in generale della pratica di una sorta di ingegneria sociale, pericoli che ovviamente derivavano dai fatti del ‘900: “E’ perfettamente concepibile, e in pratica politicamente possibile, che un bel giorno un’umanità altamente organizzata e meccanizzata decida in modo democratico, cioè per maggioranza, che per il tutto è meglio liquidare certe sue parti.” (H. Arendt, Origini del totalitarismo, p. 414).
  35. Esempi, come abbiamo detto, sono la Déclaration des droits de l’homme et de le citoyen, ma anche la Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti d’America del 1776, i trattati sulle minoranze della Lega delle Nazioni del 1919 e 1920 e la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo formulata dall’ONU nel 1948.
  36. Soprattutto, come si accennava nella nota 34, a livello bioetico e biopolitico.