Il libro di Pietro Salemme “Abitare. Dodici storie ai margini” (Edizioni Universitarie Romane – 2006) si colloca in un’area di vasto respiro metodologico e clinico. Esso attraversa, infatti, una prospettiva terapeutica basata sul rapporto quotidiano dei pazienti con la gruppalità, sia essa intesa come large group comunitario che come interazione del singolo paziente con gli altri ospiti o con lo staff di operatori. Il testo, inoltre, è attraversato dalle tante osservazioni sulla fenomenologia dell’abitare, che diviene campo d’indagine e strumento operativo su cui attivare pensieri e risorse d’équipe per favorire i processi terapeutici di cambiamento.
Nella narrazione di ogni singola storia, c’è l’eredità affettiva che gli individui sofferenti hanno sedimentato negli oggetti che le loro case ci svelano ad uno sguardo approfondito, ci sono le storie che costoro hanno disseminato con la loro presenza nei locali delle strutture sanitarie, spesso, quest’ultime, solo reperibili nelle cartelle cliniche così poco generose di dettagli che esulino dalla classica descrizione dei decorsi sintomatologici, ci sono le immagini di un territorio in cui l’équipe della Comunità Terapeutica scende cercando commistioni e mimetismi a scopo epistemofilico e clinico per continuare a pensare la complessità dell’esistere e del creare legami, c’è infine l’eco delle registrazioni controtransferali degli operatori, che sono impegnati sul versante personale interno nell’analisi della domanda di cura nonché sui processi della propria stessa temporalizzazione quali agenti terapeutici e individui umani.