La presenza del corpo, la percezione di un tempo in divenire, la relazione con l’alterità sono tre elementi che consideriamo fenomenologicamente dati e anzi costitutivi dell’esistenza stessa. Nel caso di alcune patologie nevrotiche questi elementi non si danno nella loro “naturalezza”, ma appaiono in qualche misura defettuali; abituati al confronto lacerante con la psicosi, con la sua evidenza, con l’angoscia che l’accompagna e la sostiene, rischiamo di non accorgerci di quanto possano essere “defettuali” esistenze congelate nell’incompiutezza, esistenze che sfuggono all’analisi, si nascondono all’evidenza, sono tormentate da un’angoscia sorda ed invisibile.

Siamo dunque giunti a ciò che c’è dietro e prima della fenomenologia clinica, ovvero a ciò che ci interessa non tanto per porre diagnosi o per stabilire una terapia (basta a questo quanto fin qui detto), quanto per comprendere un senso ed immaginare una prevenzione.

Dalla frammentazione iniziale della sintomatologia siamo giunti ad un più sintetico assortimento psicopatologico; esso sembra offendere i presupposti stessi dell’esistenza: il corpo, il tempo, la relazione. Voglio riconoscere come punto di repere essenziale all’interno di questo trittico, più specifico interprete dell’esistenza, nonché vera vittima del nostro problema, il concetto di persona. Questa scelta rappresenta una precisa presa di posizione.

Uso qui il termine “persona” preferendolo ad altre declinazioni dell’esperienza della soggettività umana che avrei potuto lecitamente utilizzare: identità, coscienza, soggetto, Io, individuo.
Va innanzitutto precisato per chiarezza che non mi riferisco alla persona come maschera, in senso junghiano, ovvero a

l’aspetto che l’individuo assume nelle relazioni sociali e nel rapporto col mondo.[3]

Parto piuttosto dalle parole di Husserl:

Chi vede ovunque soltanto la natura, natura nel senso e con gli occhi delle scienze naturali, è cieco per la sfera dello spirito, per il peculiare dominio delle scienze dello spirito. Non vede gli oggetti che attingono il loro senso a operazioni personali – non vede, dunque, gli oggetti della “cultura”, non vede, propriamente, le persone, per quanto si accinga a operare nell’atteggiamento dello psicologo naturalista.[4]

Siamo in presenza di un concetto piuttosto articolato, definibile fra l’altro come

sostanza primaria e indivisibile fondamento dell’individualità dai tratti eccezionali ed irripetibili, capace di agire secondo libertà, con conseguente responsabilità delle proprie azioni.[3]

La persona non è cosa, né è in alcun modo reificabile: essa è irriducibile alla condizione di oggetto. La persona non è individualità: ne è bensì fondamento; essa si qualifica inoltre per la propria intrinseca libertà, che è libertà di compiere atti. Definita tradizionalmente a priori e come fonte degli atti che ne derivano, la persona va più intimamente colta in altro modo, come spiega Wojtyla esprimendo la relazione indissolubile fra persona e atto:

l’analisi fenomenologica che Wojtyla segue, non parte dalla persona, ma giunge ad essa: studia l’azione umana e fa vedere come proprio nell’azione e mediante l’azione si riveli la persona.[6]

La persona è sì fonte di atti (intesi in senso aristotelico-tomista all’interno di una dialettica fra actus e potentia), ma non di atti indifferenti – i quali non solo ne discendono, ma la qualificano:

Chiamiamo atto esclusivamente l’azione cosciente dell’uomo. Nessun’altra azione merita tale nome.
(…)
L’atto in sé, come actus humanus, deve contribuire all’attualizzazione conoscitiva della potenzialità, che esso presuppone e che è alla sua radice. È la potenzialità dell’essere personale, mentre l’atto stesso non si spiega soltanto come actus humanus, ma anche come actus personae.
(…)
I termini «atto» e «azione» (…) sembrano definire la stessa realtà dinamica, ma, in un certo modo, più come fenomeno o manifestazione che come struttura ontica.
(…)
Al contrario, sia l’espressione «atto» sia l’espressione «azione cosciente» ci indicano il dinamismo proprio dell’uomo in quanto persona.[8]

Il concetto viene precisato ulteriormente da Buttiglione:

Facendo esperienza del proprio essere causa efficiente dell’azione, l’uomo scopre al tempo stesso di essere totalmente immanente in essa e di trascenderla. Il soggetto è totalmente immanente all’azione perché essa è la sua azione, con i fini della quale si identifica e della quale assume la responsabilità. Tuttavia l’uomo è anche trascendente rispetto all’azione. Egli la pone in essere, la sceglie e in tal modo si identifica come soggetto agente dell’azione stessa e non come uno qualunque degli elementi dell’azione, trascinato dal dinamismo intrinseco dell’azione stessa.
(…)
L’atto umano sarà dunque quell’atto attraverso il quale l’uomo attualizza le potenzialità che gli sono proprie in quanto persona e costituisce in tal modo la sua personalità. Attraverso i suoi atti, infatti, in un certo qual modo l’uomo crea se stesso, la propria interiorità e personalità morale.[2]

Ciò la distingue nettamente dal concetto di individuo, inteso nella cultura attuale come oggetto di studio e non come soggetto di relazione, e come soggetto di diritto, e non di valore.
L’approccio naturalista, come scritto da Husserl sopra, esclude dal proprio campo d’azione parte del panorama. L’Io cartesiano d’altronde non è sufficiente fondamento dell’identità, giacché, nelle parole di Ricoeur,

l’ipseità del se stesso implica l’alterità a un grado così intimo che l’una non si lascia pensare senza l’altra.[7]

La persona è dunque soggetto di relazione dotato di un Io fenomenologicamente dato di fronte ad un Mondo (o ai contenuti immediati della coscienza riconducibili all’esperienza del Mondo) fenomenologicamente dato anch’esso, soggetto di valore, fonte di atti a partire da una potentia, che sono liberi e quindi riconducibili alla propria responsabilità. Di più, possiamo dire che la persona “è” in quanto agisce liberamente (e responsabilmente) ed “è” in quanto è in relazione.
Voglio inoltre intendere – forse un po’ forzatamente – in questo medesimo senso il corpo-Leib come corpo personale:

L’uomo è “una” parte della natura e può essere studiato come “un” corpo fra gli “altri” corpi. L’uomo, cioè, ha un corpo-Körper (un corpo-oggetto) ma egli è anche (un) corpo-Leib (un corpo vissuto o vivente). Questo significa che l’uomo non si progetta solo nella fatticità (nella naturalità) del suo corpo-Körper ma anche nella libertà del suo corpo-Leib. Se questo avviene, se la coscienza intenzionale immerge il corpo in un movimento di radicale donazione di senso (Sinngebung), il corpo si destituisce per la sua fatticità e si trasforma in soggetto di esperienza; fondato nella costituzione storica e intersoggettiva degli orizzonti di senso.[1]

Infine, a proposito della temporalità ricorro alle parole di Paoletti che scrive:

Il nostro parere è che l’eccezione che – di fatto e, generalmente, anche in teoria – si fa per l’uomo, rispetto a tutti gli altri prodotti della natura (suscitando la reazione, peraltro immotivata, degli “animalistici”) è dovuta al fatto che l’uomo come persona congiunge realmente in sé (e non soltanto idealmente con il pensiero) precisamente quel livello assiologico e quel livello fattuale che devono essere uniti perché si possa parlare concretamente di valore.
(…)
Nel caso dell’uomo, al contrario – e non dell’uomo come semplice organismo vivente, ma appunto come persona irripetibile – la necessità di adeguare il fatto a un valore comunque inteso, e poi di intendere il valore in un senso che possa dirsi “divino”, diviene esplicita.
(…)
In questo stadio, l’uomo non si pone ancora il problema del valore come problema filosofico: ma, prima o poi, comincia già a viverlo come problema esistenziale. Quale che sia la risposta, egli si domanda cosa debba fare, e perché.
Attraverso questo processo l’individuo diviene persona.
(…)
Ontologicamente, perciò, l’uomo, nella misura in cui tende a farsi persona nel senso che si è detto, fa coesistere un livello assiologico con un livello fattuale. E questa coesistenza determina precisamente la specifica temporalità del suo modo d’essere.
(…)
Il problema di adeguare ciò che si fa e ciò che si è a ciò che si vuole, o si vorrebbe essere – quando anche si tratti di un’esistenza puramente edonistica o utilitaria – è appunto quello che ci fa indugiare (…) anche se non fa dell’attesa un problema cosciente.[5]

L’uomo è persona quindi nella misura in cui esperisce la dimensione dell’attesa, del tempo apparentemente vuoto ma che al contrario lo qualifica perché

senza questa “assenza di cosalità” l’uomo non diventa titolare della propria azione.[5]


Bibliografia:
[1] Borgna , E., “Saggio di psicopatologia e psichiatria clinica”, in Galimberti, U., “Il corpo”, Milano, 1983.
[2] Buttiglione, R., “Il pensiero dell’uomo che divenne Giovanni Paolo II”, Milano, 1998.
[3] Galimberti, U., “Dizionario di Psicologia”, Torino, 1992.
[4] Husserl, E., “Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica”, Torino, 1965.
[5] Paoletti, L., “Uomo e tempo, saggio di antropologia filosofica”, Roma, 1999.
[6] Reale, G., “Fondamenti e concetti base di «Persona e Atto»”, in Wojtyla, K., “Persona e Atto”, Milano, 2001.
[7] Ricoeur, P., “Sé come un altro”, Milano, 1993.
[8] Wojtyla, K., “Persona e Atto”, Milano, 2001.

 


© Cristiano M. Gaston
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